Se la prima giornata è stata quella della riflessione sul ruolo del tempo, e la seconda quella della celebrazione della cucina “apparentemente semplice” di Niko Romito, cuoco dell'anno per Madrid Fusión, il terzo giorno, l'ultimo, mette insieme diverse tematiche: l'esplorazione di culture gastronomiche meno note, lo studio dell'effetto della frutta sulla struttura di certe carni, il ritorno del concetto del tempo, la sfida dei millennial alla tradizione. Temi sfiorati anche nei giorni scorsi, e poi affrontati con nuovi racconti.
Tecnica, tecnica, tecnica
Molte le digressioni in questi tre giorni su prodotto locale, memoria e tecnica globale. Ritroviamo il tema in Alberto Ferruz, giovane e blasonato chef del BonAmb (concentratosi sull’agnello d’Aragona, prodotto bandiera della comunità autonoma) e nel discorso di Luke Dale Roberts, che rivendica la sua libertà di proporre una cucina dalla memoria british e dalla forma contemporanea, senza frontiere, al Test Kitchen di Città del Capo.
È, però, nella ponencia di Elena Arzak che (finalmente!) torna lo spirito di divulgazione tecnica cui Madrid Fusión ci ha abituato negli anni. Molto preciso l’intervento della chef basca, che porta sul palco i risultati di uno studio effettuato dal Laboratorio di Ricerca e Sviluppo di Arzak con il Basque Culinary Center sul cambiamento di testura provocato su molluschi e carne dagli enzimi naturali.
Abbiamo trattato in tempi recenti dell’importanza attribuita da molti chef agli enzimi ottenuti attraverso le fermentazioni per la ricerca dell’umami. Lavorando in questa direzione la squadra di Arzak si è concentrata, invece, sui cambiamenti profondi che la carica enzimatica provoca sulla testura degli alimenti, da sempre uno dei focus della gastronomia spagnola. Affiancati dal BCC ecco allora affinare la ricerca principalmente su calamari, polpo e carne bovina, materie prime caratterizzate da una tenacità al morso che spesso non mette d’accordo tutti i palati. Marinando questi alimenti con succhi o puree naturali di papaya, ananas e kiwi, che contengono rispettivamente papaina, bromelina e actidina (tre enzimi proteolitici) ecco che si incide non tanto sul sapore quanto sulla consistenza, con mutamenti che variano rispetto a dimensioni, tempo di marinatura e temperatura. Trenta minuti, non di più, il tempo di macerazione di un calamaro in purea di papaya e succo d’arancia (quest’ultimo influenza il sapore più di quanto lavori sulla consistenza, al contrario della prima) per renderlo più arrendevole al taglio; altrettanti in marinatura con il succo di ananas per una bistecca di manzo, che assume un morso più soave e una eccezionale concentrazione del gusto. Tutti parametri esemplificati con metodo scientifico nell’Analisi dei Profili di Consistenza, una sorta di tabella in cui si relazionano le variabili per lavorare con precisione e non danneggiare i prodotti.
Il fattore tempo, di nuovo
Simile nell’impostazione la ponencia del maestro giapponese del sushi invecchiato Koji Kimura (Sushi Kimura, Tokyo), intervento che entra in stretta relazione anche con quanto avevamo riportato lunedì a proposito del lavoro dell’australiano Josh Niland sull’affinamento e sull’invecchiamento del pescato. Qui ovviamente si cambia completamente scenario, con tecnica prettamente giapponese. È stato un precursone Kimura San, il primo a scardinare, scavando nelle origini dell’antica arte del sushi, la supremazia del pesce fresco di giornata. Se si è alla ricerca di un sapore complesso e concentrato, di una testura cremosa, soave, differente, di un bilanciamento armonico tra pesce e riso, ecco che, nella corrente di pensiero di Kimura, il pesce va fatto maturare: ore, giorni, mesi, a seconda della tipologia e della pezzatura. Molto tecnica la sua lezione (i cuochi in ascolto prendano appunti): la prima dimostrazione su uno sgombro che, per essere invecchiato, va prima di tutto privato del sangue. Come? Qui la tecnica giapponese non lascia spazio a improvvisazioni: con una siringa si inietta acqua acida elettrolizzata nei punti precisi in cui si deposita il sangue ed ecco che, magicamente, con la pressione dell’acqua, tutto il sangue scorre via. A questo punto si cosparge di olio la pelle del pesce, che deve essere posto in acqua fredda con il 3% di sale per 4 giorni (durante i quali l’acqua va cambiata). È il momento di aprire il pesce in filetti: privati della lisca e cosparsi con sale per 8-10 ore per far asciugare l’acqua in eccesso.
I filetti vanno lavati e immersi di nuovo in acqua fredda con il 3% di sale: per osmosi a questo punto il sale in eccesso sarà eliminato. Lo scorrere dei giorni di maturazione viene ora scandito grazie alla perizia del cuoco che, in base a dimensioni ed evoluzione, capisce quando è il momento di utilizzare il pesce per il sushi, eliminando le parti ossidate (che non vanno sprecate, ma finiscono in zuppe e quant’altro).
Vero spettacolo, in conclusione, la lavorazione del pesce spada alla maniera di Kimura: l’invecchiamento, a diversi stadi, regala al pesce tali sfumature di complessità gustativa da renderlo un prodotto nuovo. Quello presentato sul palco, maturato 50 giorni, ha colore arancione scuro, scioglievolezza eccezionale sulla lingua, aroma di caffè e frutta secca. Una rivoluzione, a dir poco, nel granitico universo del sushi.
Tavola uguale identità
Ci sono luoghi le cui tradizioni gastronomiche sono ancora da scoprire, a partire dal loro patrimonio alimentare. Uno di questi è la Colombia: 13mila chilometri quadrati di montagne, deserti, foreste, isolotti e veri paradisi caraibici (come ci ha raccontato Victor Cuenca Lopez qualche tempo fa). Una terra ricchissima di panorami, biodiversità, culture eterogenee: indigena, africana, europea, araba. Un melting pot che – spiegano Jaime Rodríguez e Sebastián Pinzón (Celele, Cartagena) – è ben sintetizzato da un piatto locale, l'arepa all'uovo: il mais indigeno, l'uovo (le galline furono portate dagli spagnoli), il siero di latte di derivazione araba e la poi la frittura, eredità africana. I due hanno percorso per due anni il territorio regione per regione, cercando e catalogando prodotti, ricette e tradizioni dei Caraibi colombiani che oggi portano in tavola nel loro ristorante dove elaborano questo patrimonio in chiave contemporanea. A partire da materie prime autoctone che riescono ad avere grazie a una rete di raccolta che offre sostegno ai produttori più piccoli, altrimenti impossibilitati a provvedere da soli all'invio. “I Caraibi sono molto più che cocco, pesce fritto o patacones”: ci sono fiori, decine e decine di tipi diversi di fagioli, frutta, fermentati, ricette originarie del deserto tropicale (come la capra in umido con succo di cocco e guajiro essiccato) e di altri microclimi. Rodríguez e Pinzón, esponenti di una nuova generazione di cuochi capaci di raccontare questa biodiversità, han dato una dimostrazione del loro lavoro con il fiore in salamoia ripieno di tartare di gamberi con emulsione di olio di cocco e brodo di foglie, un lavoro elaborato con la collaborazione del Basque Culinary Center.
Uguale parola chiave: identità, ma tutt'altro mood per l'intervento a tutto rock dei Bros' di Lecce. Floriano Pellegrino e Isabella Potì salgono sul palco rivendicando la loro mediaticità, il loro essere giovani, belli, sfrontati, Instagram leader. Parlano di un impegno consapevole nel curare la loro immagine al pari della cucina, di considerare i social network parte integrante del loro lavoro, di usare Instagram per selezionare i collaboratori, forti di un appeal (e di una bellezza) che non passa inosservato. Così, quando hanno aperto il loro locale 4 anni fa (25enne lui, 20enne lei) in una zona d'Italia poco generosa di offerte gourmet, hanno capito una cosa: lavorare sodo, lavorare duro per tradurre il loro pensiero nei piatti e nella comunicazione (la loro personale, non solo quella del ristorante) puntando su un'immagine coordinata.
Orgogliosamente millennian, hanno un obiettivo: interpretare quella tradizione che in certe parti d'Italia pare inamovibile, alla luce di una grintosa contemporaneità, senza temere di infrangere qualche regola e stravolgere quella gastronomia così rassicurante cambiandola in altro, qualcosa di molto meno confortevole - e la loro ossessione per il rancido ne è un esempio - per andare “contro l'omologazione culturale”. “In Italia siamo adoratori di ceneri” fa Floriano Pellegrino che sostiene la responsabilità di non dimenticare la tradizione e il diritto a non esserne sopraffatto, la voglia di divincolarsi da una tradizione che rischia di soffocare e di spingersi avanti su nuove traiettorie per rileggere l'identità culturale, fino a trasformare il Salento in una nuova meta di turismo enogastronomico. Ci stanno riuscendo? Forse sì, a suon di “atteggiamento, perseveranza, sacrificio e divertimento” con traiettorie gustative che giocano con acidità spinte, umami, provocazioni, sapori locali, corredati da foto, progetti, comunicazione di sfondamento e tanta convinzione nel sostenere la loro ricerca “gastronomica, culturale, artistica”.
E mentre Pellegrino parla (ma solo appena) dei loro maestri, Berasategui prima di tutti, e denuncia l'insufficienza delle scuole in Italia, Isabella dà una dimostrazione pratica del loro lavoro: ricotta scanta (fermentata 3 mesi) e ricci di mare di Santa Maria di Leuca (ah che abbinamento!), pasta aglio olio peperoncini e grasso rancido servita fredda, e sanguinaccio home made (sangue, cervello, latte) con cioccolato, burro rancido e banana nera. Un tris da ko out che non aspetta altro che luglio (il 5 e 6) per trovare un complemento nell'appuntamento Metaland, primo summit gastronomico targato Bros, lanciato dal palco del primo appuntamento d'alta gastronomia dell'anno: e non dire che sia un caso!
a cura di Antonella De Santis e Pina Sozio