Nell'ambito delle proteste del settore agricolo di queste ultime settimane, una misura come l'esenzione dell'Irpef agricola (sui redditi dominicali e agrari) che vale appena 140 milioni di euro «gioca un ruolo minore, rispetto ad altre questioni in campo, ben più rilevanti». Non ha dubbi Luigi Marattin, professore associato di Economia politica all'Università di Bologna e deputato di Italia viva. Interpellato dal Gambero Rosso sul piano di interventi dell'attuale governo di Giorgia Meloni per il settore primario, Marattin ha spiegato il perché questa esenzione, che ha guadagnato la ribalta della cronaca più recente, somigli più a mossa propagandistica che a un provvedimento destinato a incidere in modo sostanziale sui conti delle imprese di un settore primario in difficoltà.
Il provvedimento sull'Irpef, anche in considerazione dello spessore della misura dal punto di vista finanziario, sembra più uno specchietto per le allodole. Cosa ne pensa?
L'importo complessivo dell'Irpef agricola è in effetti molto esiguo, in media poco più di 10 euro al mese per ognuno degli agricoltori italiani. Per questa ragione, nel 2015 decidemmo di eliminare questa imposta (nell’ambito di un più imponente piano di detassazione per il settore agricolo, che comprese anche l’eliminazione dell’Irap e dell’Imu). Se un’imposta vale molto poco, allora tanto vale eliminarla: ci sarà un guadagno, ad esempio, in termini di semplicità, minore burocrazia e minori oneri di controllo per l’amministrazione finanziaria.
Il governo Renzi ha applicato l'esenzione dell'Irpef agricola, il governo Meloni l'ha reintrodotta ma ora punta a rimodularla, esentando le imprese con minore reddito.
Durante la scorsa legge di Bilancio non abbiamo condiviso la decisione del governo Meloni di re-introdurre l’Irpef agricola. E ora siamo contrari a marce indietro a metà che la reintroducano solo per qualcuno. Detto questo, ritengo che nell’ambito della complessiva protesta del mondo agricolo questa vicenda giochi un ruolo alquanto minore. Perlomeno rispetto alle altre questioni in campo, ben più rilevanti.
Quali sono, allora, le misure che ritiene più urgenti per il settore agricolo italiano?
Sono soprattutto due. La prima è cercare un equilibrio che tenga insieme l’accompagnamento verso la necessaria transizione ecologica con la necessità di non far competere i nostri agricoltori nel mercato mondiale con una mano legata dietro la schiena. Mi spiego meglio. In un modo o nell’altro, la transizione ecologica impone ai nostri agricoltori una struttura di costi aggiuntiva. I nostri competitor internazionali, che in un mercato concorrenziale (che io difendo) “lottano” con le nostre produzioni, spesso non si trovano in questa condizione. E mentre, in un mercato, è perfettamente logico che gli agenti economici abbiano strutture di costo differenti, dovute a maggiore efficienza imprenditoriale, è meno logico che lo svantaggio competitivo derivi da regole auto-imposte. Soprattutto se orientate alla protezione dell’ambiente, che non è un’esigenza europea ma mondiale. E su cui lo sforzo europeo può incidere, alla fine, abbastanza relativamente.
Qual è la seconda sfida?
Quella della crescita dimensionale. Nel mondo globalizzato, la dimensione media della nostra impresa (e certamente non solo agricola) è troppo bassa. Ci sono due risposte possibili a questo problema: la prima è dire ai piccoli di arrangiarsi. La seconda è quella giusta: dirigere gli strumenti della politica economica verso l’incentivazione all’aggregazione delle piccole e piccolissime realtà imprenditoriali. Aziende agricole di dimensioni maggiori, tra le altre cose, sarebbero anche in grado di contrattare condizioni più convenienti con i segmenti più a valle della filiera distributiva. La politica ha tradizionalmente preferito coccolare gli imprenditori con lo slogan “piccolo è bello”, che è più rassicurante perché ci ricorda dei bei tempi andati. Ma se non è in grado di accompagnare tutti verso tempi sempre migliori, allora a che serve la politica?
Come valuta il recente annuncio della Commissione Ue di voler rimodulare gli obiettivi della Pac, ridurre il carico di burocrazia per gli agricoltori, rivedere il piano di riduzione dei fitofarmaci?
Meglio tardi che mai. Personalmente, sono sempre stato scettico su misure come quelle del 4% di terreni da lasciare obbligatoriamente incolti. Questo fa parte di quella struttura di costi aggiuntivi di cui parlavo prima. Vi è, poi, anche qui un grosso problema di rappresentanza: le maggiori organizzazioni agricole hanno fondamentalmente concertato con Bruxelles la nuova Pac. Ma la protesta di questi giorni in tutta Europa è spontanea. E spesso è diretta proprio contro le rappresentanze tradizionali. Segno che ad essere in crisi, da un po’ di tempo a questa parte, non sono solo le strutture di rappresentanza politica come i partiti, ma anche quelle di rappresentanza sociale.