"Le cucine dell'Africa non interessano, l'Italia è razzista". La denuncia di una famosa chef congolese

19 Mag 2024, 14:22 | a cura di
Cuoca, chef, attivista, Victoire Gouloubi racconta che il nostro Paese è ancora molto prevenuto verso la cultura e la cucina africana. Peccato: ha un valore enorme, e rappresenta una fetta di business importante

«Va cambiato tutto, a partire dal lessico», dice Victoire Gouloubi: «Si considera l'Africa in blocco, come se fosse una cosa sola» un po' come pensare che Italia, Francia, Spagna, Germania, Belgio, Svizzera, Paesi Bassi siano la stessa cosa. L'Africa è un continente enorme dove passano l’Equatore e due Tropici, «la maggior parte delle persone ignora persino il numero di stati che ne fanno parte» (per chi volesse saperlo: sono 54, con culture, abitudini, tradizioni e cibi completamente diverse). La chef congolese è netta nelle sue posizioni: «In Italia c'è molto razzismo». Lo dice a ragion veduta: arrivata qui da più di 20 anni, molti dei quali passati nelle cucine di ristoranti d'autore, sa misurare con precisione il tasso di civiltà del nostro Paese, e il responso non è confortante: si passa con beata ignoranza dalla non considerazione al paternalismo, quando non alle discriminazioni vere e proprie. Poco inclini, come siamo, a guardare con obiettività il valore altrui, soprattutto se donne, soprattutto se nere: «Lavoro in questo ambito da anni, e posso dirmi soddisfatta: ho raggiunto traguardi importanti, ho conferme da parte di colleghi che mi considerano al loro livello, ma non conta nulla: quando devo andare da qualche parte mi devo sempre presentare. Come se dovessi mostrare sempre la carta di identità», dice con amarezza. «Qualcuno mi ha chiesto se penso che il Piano Mattei potrebbe cambiare la storia degli africani. Stiamo ancora lì... l'Africa vuole camminare con le proprie gambe, non essere trattato come un bambino idiota da divorare e sfruttare al massimo. La battaglia che stiamo facendo è un'altra: il cibo non è un target ma un diritto per tutti, e con il cibo la cultura».

victorie-gouloubi

Il razzismo passa anche per il cibo

L'equivalenza tra cibo e cultura è un tema su cui torna con decisione, «è una battaglia che faccio da 23 anni» e non dice tanto per dire, ma perché il suo impegno da attivista è apri a quello da chef. Lei che si è affrancata crescendo nel mondo della ristorazione, oggi unica private international chef italiana con al seguito una brigata di 20 persone, sola donna nera salita agli onori delle cronache - «ma non mi piace essere l'unica referente del mio continente che vive nell'alta gastronomia, anche se Italia non mi ha mai premiato» - racconta di una rivoluzione africana, soprattutto centro africana, che sta manifestandosi in tutti gli ambiti. Di questo in Italia non ci si accorge, si continua a vedere a quel che viene dall'africa come a qualcosa di minoritario. Eppure non parliamo di una popolazione vergine: abbiamo molte famiglie miste, molti italiani sono coniugati a persone africane: quella parte di società che fa, butta via la propria cultura? «E invece non se ne parla, neanche nelle scuole, neanche negli alberghieri, dove si dovrebbe avere un professore che almeno racconti le etnie gastronomiche».

Victoire Gouloubi cheffe

I ristoranti africani in Italia

Ma come vanno i ristoranti africani in Italia? «La maggior parte sono locali vecchio stile che promuovono un'identità gastronomica antiquata, anche se ultimamente qualcosa si muove. Non si tratta di fine dining, ma di locali basic, sorta di trattorie o bistrot, con location carine». È la strada giusta? «Si può correggere un po' il tiro, fare una modernizzazione. Con un occhio alla cultura di appartenenza, dando la possibilità alla gente di scoprire dove la può portare un certo ristorante, andare al di là della contaminazione, ma per fare questo bisogna dare voce a queste realtà, stimolarle. Prendere esempio dalle comunità cinesi o giapponesi che hanno letteralmente conquistato l'Europa con la loro ricchezza gastronomica, si sono imposti e sono stati accettati, e nel tempo hanno modernizzato la loro proposta».

Ci sono moltissimi africani anche di seconda o terza generazione, possibile che non siano emersi format più evoluti? «I giovani  vanno via, dove ci sono comunità maggiori e più integrate, per esempio in Francia, o dove c'è meno competizione e meno difficoltà nell'affermarsi: in campo culinario l'Italia rimane indietro, è molto chiusa». Quale è l'ostacolo maggiore? «La nostra cucina non interessa. E poi per fare buone ricette servono buoni prodotti, che rispettino biodiversità e territorio, che oggi qui non ci sono. Basti pensare che molti prodotti arrivano attraverso la comunità cinese, oppure si deve Andre fuori dall'Italia per trovare gli ingredienti. Bisogna chiedersi come è possibile creare un ponte, un giusto scambio di reperibilità di prodotti dal continente africano. Possibile che non vi sia un posto dove trovare prodotti di qualità ed eccellenza? Eppure è una fetta di business enorme: il primo che arriva si serve. Invece gli imprenditori che investono sempre sugli stessi chef».

La cucina africana all'estero

All'estero qualcosa si sta muovendo: in diverse parti del mondo stanno arrivando ii riconoscimenti per ristoratori e chef di origini africane (ne riparleremo a breve). «Attenzione che i riconoscimenti non siano solo una questione politica, un modo per lavare questa macchia, perché se si premia con criteri seri, allora di chef in giro al mondo ce ne sono moltissimi». E i riconoscimenti sono invece pochi: «È importante poter stimolare i giovani a proseguire in questo lavoro senza frustrazione, senza la sensazione che si scelga un colore della pelle. Molti nell'alta gastronomi si chiedono cosa ci sono entrati a fare in questo mondo, sono cose che lavorano sulla mente di una persona anche nel mondo occidentale e caucasico, in tanti si sono resi conto che hanno venduto l'anima al diavolo, che lavorano per rispettare codici severi e non era quella la vita che volevano. Quando arriva la stella cambia la vita, ma bisogna ricordarsi che il cibo è un valore,  un denominatore comune della pace e dello scambio».

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