“Nella città del lampredotto e della bistecca per eccellenza, cioè Firenze, il migliore fast food non è quello che serve la carne, ma quello vegano: niente animali nel piatto ma solo funghi e vegetali. Incredibile ma vero”. Con queste parole inizia un articolo del Corriere Fiorentino del 19 gennaio, ed è da qui che ci pare giusto cominciare a raccontare la storia del caso gastronomico che in questi giorni sta sconvolgendo la Toscana. Già, perché è proprio sotto la ricondivisione di questo articolo che molti utenti si sono scatenati, dando spazio a insulti e le volte ad accenni alla violenza nei confronti del titolare della prima tripperia vegana: .. Ma come mai siamo arrivati a tanto, e soprattutto, perché le accuse degli utenti sull’errato uso della lingua sono rigidità inutili? Eccovi spiegato l’affaire "Lampredotto vegano" e il perché la storia etimologica del celebre panino dà in realtà ragione al cuoco veg.
Il caso del lampredotto vegano
Lo chef Gaetano Cerasuolo, in arte Tanotto, è lo chef e l’ideatore dell’omonima tripperia vegana, di cui molto si è parlato anche per via del modo originale che ha di servire i prodotti, ovvero attraverso un cestino – il noto "panaro" napoletano – calato da un balcone al secondo piano di Viale Guidoni 85, a Firenze.
Durante la pandemia Tanotto ha deciso di creare questa proposta vegana e sostenibile, a partire dai funghi provenienti dalla Circular Farm di Scandicci dove vengono coltivati su fondi di caffè provenienti da 30 bar fiorentini, seguendo un modello di riciclo e rigenerazione. Sebbene il successo dei suoi panini lo abbia spinto a cercare nuovi fornitori per soddisfare una domanda sempre crescente, Tanotto è rimasto fedele ai suoi valori di sostenibilità, optando solo per coltivazione in biologico.
Ed è proprio dai funghi che nasce il suo “lampredotto”, ispirato al celebre panino di frattaglie fiorentino, realizzato con pane autoprodotto e una ricetta segreta a base di tre tipologie di funghi, oltre a salsa verde e salsa piccante, arrivando a ricreare un sapore e una consistenza veramente simile all’originale, oltre che nella funzione nutrizionale proteica.
Il premio come migliore street food
Un successo che oltre ai clienti ha convinto anche la critica, portando il ristorante casalingo a vincere il riconoscimento fiorentino Forchettiere Awards 2024, giunto alla quarta come premio alla ristorazione territoriale ideato dalla rivista Il Forchettiere, testata molto radicata tanto in Toscana quanto nella vicina Umbria, dove tiene una manifestazione analoga. Secondo le votazioni, andate avanti per tutto dicembre sul sito per quanto riguarda il voto popolare (40% del peso) a cui poi si somma il voto di 80 giurati del panel tecnico (il cui voto pesa per il restante 60%) è infatti lui il migliore street food di Firenze. E da qui nasce la polemica.
I soliti insulti ai piatti vegan (che hanno un po' stancato)
Quando l’articolo del Corriere viene pubblicato su Facebook i commenti sono di ogni natura:
“Se è vegana non può chiamarsi Tripperia, accusatelo per frode o truffa” scrive un utente dal piglio giustizialista, “Sono ridicoli, mangiassero verdure” aggiunge un altro con grande apertura mentale. Poi ovviamente non possono mancare i complottisti “Quello che mi domando é che gente perversa non vuole uccidere gli animali ma gode nel mangiare cibo che rappresenta parti di animali morti.... E presto saranno loro a comandare” scrive un lettore che conosce evidentemente i piani del Nuovo Ordine Mondiale che a noi sfuggono, ma ancor di più pare sul pezzo un suo pari che scrive “Che fra poco ci sarà anche la trippa fatta in laboratorio cinese con le stampanti 3D. E ce la impone l'Europa, assieme a scarafaggi e piattole”.
C’è chi poi accompagna il proprio commento con una foto di Pacciani, che non si sa mai, fa sempre folklore. Se poi seguiamo le condivisioni degli utenti sulle proprie bacheche il tono dei commenti aumenta di volume. C’è chi con piglio ghibellino inneggia a Lucca come ultima roccaforte della carne dopo la caduta di Firenze, che ovviamente ora che ha una tripperia vegana è irrimediabilmente corrotta e tutti i grandi maestri della carne sono condannati a indossare la carota scarlatta per aver condiviso la stessa aria con chi ha fatto scelte alimentari diverse. Poi invece ci sono le velate minacce, di cui non ci si prende la responsabilità, ma ovviamente le si mettono in bocca ad un amico.
C’è chi scrive “Bestemmia, profanazione! "Lampredotto", "trippa", "guancia" e "lesso rifatto" vegani. A Firenze. Il cuoco serve i panini "calandoli dalla terrazza alla strada con un panierino legato a una fune". Come dice un amico mio, sicuramente li cala dall'alto per non prendere degli schiaffi” e chi in un altro post commenta “Certo che se gli lasciamo fare pure questo, siamo perduti si dia fuoco a cesto e corda, che poi magari risale su e la facciamo finita una volta per tutte (mancanza di punteggiatura e maiuscole mantenute dall’originale)”. E per concludere, non manca chi rinfaccia a Tanotto le proprie origini e propone una soluzione Trumpiana per tenere lontani questi immigrati della cucina “Ci mancava pure il vegano napoletano! Propongo di riedificare la cinta muraria lungo i viali di circonvallazione”.
Il lampredotto era un pesce
Tolti gli esaltati (la maggior parte dei commenti sotto l’articolo sono oggettivamente di complimenti) è interessante soffermarsi sul punto chiave di questa storia, ovvero l’accusa che molti di questi muovono di una appropriazione indebita del nome “lampredotto” per un piatto vegano. Ma se vi dicessimo che l’etimologia di questo piatto è ittica, e la carne lo ha in realtà rubato a un piatto di pesce, facendo la medesima cosa che oggi si accusa di far fare ai funghi?
Il nome di questo piatto, deriva infatti dall’imitazione di quello che era uno dei piatti più amati dalla nobiltà europea e quindi fiorentina nel Medioevo e nel Rinascimento, ovvero la lampreda, un bizzarro pesce che pare una via di mezzo tra un’anguilla e una sanguisuga, con una bocca estremamente poco attraente. Durante tutto il Medioevo se ne faceva gran uso in cucina, servito in galantine o in paté en croute, accompagnato spesso da una salsa nera preparata con il sangue della stessa.
Un pesce la cui preparazione richiede un’attenzione particolare; serve infatti una cottura a elevata temperatura per distruggere il veleno che è contenuto nel loro sangue e che agisce sul sistema nervoso. Non pare un caso che questo pesce sia passato alla storia per aver ucciso re Enrico I d'Inghilterra, che ne restò avvelenato dopo un’indigestione (almeno questa la versione ufficiale, all’epoca i veleni a corte potevano avere anche provenienze diverse da quelle naturali). Se oggi qui da noi si è persa la tradizione di mangiare questa bizzarra creatura, sopravvive in altre regioni d’Europa, in genere sempre con la stessa ricetta a base di vino rosso che cambia nome a seconda del paese: “lamproie à la bordelaise” in Aquitania, “lamprea a la bordelesa” in Spagna con la variante di “lamprea á bordelesa” in galizia, e per finire “lampreia à bordalesa” in portogallo.
Dalla comparazione con questo piatto di pesce dalla lunga cottura, ecco nascere il suo emule nella cultura popolare, fatto con le interiora (nello specifico l’utilizzo di uno degli stomaci del vitello, il quarto, ovvero l’abomaso) ma che tecnicamente e come consistenza vuol ricordare il piatto dei ricchi. Una storia gastronomica secolare la cui comprensibilità risulta quasi perduta ai nostri contemporanei, più avvezzi al panino che al bizzarro pesce marino, ma da cui potremmo e dovremmo trarre una lezione su come la cucina da sempre prende ispirazione da altri piatti pre-esistenti per creare cose nuove, usando tecniche di cottura, salse, e consistenze per dare vita a qualcosa di nuovo.
Con un po' di fantasia si può immaginare lo stesso sdegno che oggi i carnivori riservano per il piatto vegano nelle bocche degli spocchiosi aristocratici, scandalizzati che il popolo volesse imitare con della carne (anzi, ancor peggio, con delle interiora) il loro amato piatto. E invece eccoci qui, qualche secolo dopo a constatare che la natura umana non cambia mai, eppure le volte sarebbe meglio riempirsi la bocca di cose buone (che esse siano pesce, carne o funghi) invece che di parole vane, malcelate minacce e complottismi alimentari. La storia va avanti un morso alla volta che lo si voglia o no, sta a noi comprenderla e accettarla per quella che è: un’evoluzione senza esclusione.