Il pretesto lo offre l’ultima edizione di Vini d’Italia, dove per la prima volta si assegnano i Tre Bicchieri a un Lambrusco Grasparossa “dal corredo aromatico ampio, frutti di bosco come ribes e mirtillo in evidenza, cenni di pepe bianco e di mentuccia”, ricco al gusto “con la carbonica viva, corpo bilanciato che allunga sul finale di eleganza”. È il premio al Grasparossa Castelvetro Vini del Re ’22 della Cantina Sociale Settecani ma anche un traguardo per il comprensorio, il riconoscimento per quel manipolo di produttori che con amore e consapevolezza si dedica al lambrusco “scuro” della tradizione modenese. Mai semplice da sdoganare oltreconfine, specie sul fronte della qualità. Grasparossa che riempie il bicchiere e la campagna di spuma e di colore, rosso cangiante nel tinteggiare i paesaggi autunnali e le labbra; di mirtilli e fragoline è il profumo che sprigiona nel bicchiere, con sorso pieno e goloso, frizzante di rosso anche quello.
Il Lambrusco in un mondo che cambia
«Nel tempo è cambiato il modo di pensare dei viticoltori – dice il presidente di Settecani Paolo Martinelli – anche indirizzato da questa cantina, nata nell’omonima frazione di Castelvetro cento anni fa». Oggi sono 120 i soci conferitori, «cresciuti nel valorizzare la vigna» anche in tema sostenibilità, «perché se non hai buona vigna non hai cantina, non hai vino. Puntiamo sulla qualità, consapevoli che sul fronte delle rese non siamo competitivi con le realtà della pianura». Parola di chi alleva 400 ettari vitati fino ai 450 metri di altitudine, appezzamenti ed esposizioni diversi, «passiamo dai calanchi alle colline più dolci e così variano suoli e microclima», come ricorda l’enologo Andrea Graziosi. Da qui la differenziazione dei prodotti col Grasparossa come filo conduttore: «Ha buccia spessa, ricca di polifenoli; sulla pianta è coriaceo e tardivo nella maturazione», qualità da gestire bene in cantina per «domare un tannino importante, facendo attenzione alla macerazione». Ne nasce un vino dall’indole gastronomica, buono nell’accompagnare la tavola emiliana dallo gnocco fritto (qui un ristorante a Modena dove mangiarlo) ai salumi, dai bolliti ai ragù, storicamente declinato nelle versioni secca e amabile «ma che ancor prima era come veniva», con le fermentazioni interrotte dall’inverno e riattivate a primavera, in maniera piuttosto empirica.
La linea Vini del Re della cantina Settecani nasce per valorizzare i grappoli più belli e più buoni, così il “Graspa” dagli appezzamenti in altura, «vino fresco e fruttato, ottimo dall’aperitivo al tutto pasto» nell’intercettare il gusto del consumatore locale e straniero, col «turismo in zona che sta crescendo» al di là dei tour per la Ferrari e il Parmigiano. A tal proposito, da un vigneto vicino all’incantevole Santuario della Beata Vergine a Puianello (meta che vale il viaggio), nasce Settimocielo, primo metodo classico di Settecani da vecchi cloni di Grasparossa, «pressatura soffice e 24 mesi sui lieviti» a preservare freschezza e colore, acidità, «quasi una terza via tra lambrusco e spumante».
Castelvetro, il cuore della denominazione
Castelvetro è il fulcro della denominazione e del nostro viaggio, così ci spostiamo nelle Tenute Agricole Cleto Chiarli, fondate nel 2001 dai fratelli Anselmo e Mauro (accanto alla poderosa Chiarli 1860) con «la volontà di tornare piccoli e tutelare vecchi cloni selezionati sul campo». E di riacquisire una cantina in Castelvetro, riappropriandosi di vinificazione e imbottigliamento laddove restavano soltanto magnifici poderi. È il giovane Tommaso Chiarli, in prima linea nella gestione aziendale, a tracciare il corso del Grasparossa per la famiglia che «lo coltiva fin dal 1898, sempre in zona pedecollinare. Tra i varietali del lambrusco è quello che meglio si è adattato alle altitudini preappenniniche come alla pianura, offrendo un’interessante varietà di interpretazioni».
L’avvento delle autoclavi, negli anni Cinquanta, segnò il cambio di passo dell’azienda, col Grasparossa che per i modenesi è sempre rimasto “lo scuro” e che si cominciò a vendere anche all’estero, fino ad arrivare al prodotto “amabile” con residuo zuccherino elevato nel bilanciare la vinosità, il corpo, la ruvidezza. «Talmente apprezzato che la moda portò a eccessi e distorsioni», in quei drammatici anni in cui il lambrusco rischiò di perdere l’identità al cospetto di quantità e prezzi bassi. «Quando si è riemersi, l’attenzione era totalmente spostata sui vini secchi, lasciando all’amabile il ruolo del cattivo». Non è così per Cleto Chiarli, che con orgoglio propone il Centenario Amabile, «dolce e fruttato l’ingresso in bocca, asciutto il finale», versatile negli abbinamenti «coi formaggio saporiti, con un petto d’anatra o con la pizza, per stemprare l’acidità del pomodoro, con certa cucina esotica speziata e piccante». Al suo fianco il secco Vigna Cialdini, icona elegante e fragrante, «da un vigneto di 25 anni su cui abbiamo concentrato tutte le nostre ricerche, puntando a un lambrusco scuro di qualità che dissipasse le nebbie sulla tipologia».
Grasparossa: la sottozona Montebarello
Ha sede nei pressi di Castelvetro anche la Fattoria Moretto, gestita da Fausto e Fabio Altariva (in pista adesso anche suo figlio Alessio, quarta generazione all’opera) e fondata da nonno Antonio a inizio anni Sessanta, trasferitosi qui da Pavullo. Siamo sui colli più vocati e affascinanti del Montebarello, «per la quale è in dirittura d’arrivo il riconoscimento di una sottozona della denominazione», a certificare la differenza con le produzioni di pianura. Nel 1991 il salto di qualità, puntando all’imbottigliato d’eccellenza e accorpando appezzamenti di Grasparossa ben soleggiati e ventilati, «per l’unica varietà a bacca rossa che alleviamo». È un museo a cielo aperto il vigneto Canova «con piante di oltre 50 anni di età», da cui nasce l’omonimo cru aziendale, naso di frutti rossi e geranio, sorso secco, sapido, mentre il Monovitigno è figlio di «argilla più compatta su terreni in direzione Levizzano, 280 metri di altitudine, tannino morbido e beva più classica». Il residuo zuccherino è sempre basso, uguali il metodo e la vinificazione da mosto, «a esaltare le differenze di suolo, di esposizione»: quasi un’enciclopedia del “Graspa” di collina per vini estremamente stagionali, specchio della vendemmia, con «tannini maturi e bassissimo apporto di solforosa». Nota più spensierata quella dello Sbiadì, un «quasi rosato da pressatura soffice e zero macerazione, 4 mesi sui lieviti senza alcuna nessuna filtrazione», a giocarsela con certi Sorbara che tanto piacciono ai giovani in orario d’aperitivo.
A sud della via Emilia
Non è lontano il luogo che nei primi anni Ottanta Enzo Manicardi scelse «per produrre un Lambrusco che piacesse alla moglie Ginevra, detta Veva – come ricorda la figlia Maria Livia, «donna molto bella e dal palato fine – amante di quel Lambrusco rosa che col tempo è divenuto il Metodo Classico Fabula, con saldo di uve Pignoletto. Ma resta il Grasparossa la varietà principe dei vini prodotti dall’Azienda agricola Manicardi, in questa collina assolata che inizialmente fu «meta da fine settimana per noi che stavamo a Modena. Qua non c’era niente, se non la stalla e la casa del contadino che divenne il primo cantiniere». Enzo vi portò anche le sue botticelle per l’aceto balsamico e la produzione si è poi ampliata, consolidata, tenendo il filo con la tradizione e guardando alla contemporaneità. «Dopo la riscossa del Sorbara abbiamo capito che anche il Grasparossa poteva riconquistare il posto che merita», ricorda l’enologo Valerio Macchioni, «diversificando le produzioni e nobilitandone le specificità. A sud della via Emilia, dove si coltiva questa varietà, la zona è più eterogenea, e così la qualità dei suoli e di risultati ottenibili». Qui siamo sui colli e non si sbaglia, «storicamente offriamo un Grasparossa ruvido e corposo, da macerazioni di 5/6 giorni a contatto con le bucce, estrazione di profumi ma anche di alcol e tannini». Prodotto sia in versione secca che amabile, ad elevarsi è il Ca’ del Fiore «da unico vigneto con toponimo riconosciuto», intenso e corposo, sapido, specchio della territorialità e della filosofia aziendale.
Verso Maranello
Risalendo verso Maranello, laddove nord significa riconsegnarsi alla piana, incontriamo l’azienda agricola Pezzuoli, viticoltori dal 1932, dove Alberto Pezzuoli si dedica con passione alla produzione di lambrusco Grasparossa dai propri vigneti, anche con una linea biologica. È l’Etichetta Nera ’22 che più è piaciuta a Vini d’Italia, al naso note di lampone e rosa, al palato carbonica ricca e vena acida allettante.
Antonia Munari opera invece a Baggiovara, dal 1998 alla guida di Villa di Corlo, fascino a dismisura per l’antica acetaia nei solai della villa del Seicento dove si produce aceto balsamico tradizionale di Modena. «Ma fin da subito abbiamo investito per un Grasparossa di qualità», brevissima fermentazione iniziale e quindi “tecnica del freddo” a conservare profumi, frutto, fragranza, risvegliati poi nel passaggio in autoclave. Il loro Corleto nasce nei vigneti attigui alla tenuta e poi diventa figlio di una sola vigna a San Venanzio, 200 metri di altitudine vicino Maranello, con un perfetto equilibrio tra zuccheri e acidità, «indispensabile per l’allegria del lambrusco». Da quest’anno si aggiunge la produzione di un appezzamento acquisito in collina, nella già decantata sottozona del Montebarello: ottima esposizione e provvidenziale presenza di un lago, i mosti raccontano una promettente prima vendemmia. Antonia conferma che il Grasparossa «dà un’uva generosa e sana, con buccia grossa e splendido colore, tannino importante, richiede attenzione in cantina dove tende a fermentazioni anomale e retrogusto amaro». Peculiarità e metodo permettono un «limitatissimo utilizzo di solforosa, particolare a cui tengo molto».
Bere poco, bere bene e con consapevolezza, anche di ciò che si ha nel bicchiere: «Amo molto i vini buoni, non voglio certo sprecare la salute per quelli che mi piacciono il giusto», sorride Antonia Munari. E questa filosofia può valere ben oltre i confini di Castelvetro, laddove il “Graspa” suona finalmente la sua riscossa.