Come Donald Trump accelera verso la Fase 2
L’idea in sé non sarebbe neppure malvagia. Per favorire la ripresa quando sarà possibile riavviare il Paese, Donald Trump ha deciso di costituire gruppi di lavoro specifici (task force) per ogni settore economico di rilievo nel sistema statunitense. Il Presidente non ha mai nascosto una certa premura di ripartire, in barba alla prudenza degli epidemiologi chiamati dalla Casa Bianca a gestire l’emergenza. Sul piatto ci sono le presidenziali del prossimo autunno, tanto imminenti da essere forse destinate a slittare. E dunque la necessità di non perdere consenso, a fronte di una crisi che ha già provocato 22 milioni di disoccupati (tante sono le richieste di sussidio presentate nell’ultimo mese, ma il numero è destinato a salire). Si teme che il tasso di disoccupazione potrà toccare un picco da Grande Depressione, pari al 20%, con l’aggravante di un deterioramento repentino del mercato del lavoro, che sta mettendo a dura prova moltissimi americani. Il pacchetto di aiuti economici che il Governo centrale ha intenzione di concedere a famiglie e aziende è generoso (e anche questo frutto di abili calcoli propagandistici), ma ancora in via di definizione.
La task force di Trump per la ripresa economica
Mentre proprio per accelerare il passaggio alla famigerata Fase 2, un po’ com’è avvenuto in Italia con la costituzione del gruppo di crisi presieduto da Vittorio Colao, Trump ha scelto di nominare una commissione di consulenza che rappresenti il mondo delle aziende statunitensi, riunendo duecento nomi di grande rilevanza economica e finanziaria, in un pout pourri fatto di amicizie, interessi e qualche riluttante apertura al “nemico” (come il patron di Amazon Jeff Bezos, con cui notoriamente non corre buon sangue; ma tra gli altri spiccano anche Tim Cook, ceo di Apple, e Mark Zuckerberg di Facebook). All’interno di questo gruppo chiamato a lavorare per “la rinascita economica” degli Stati Uniti, si distinguono poi commissioni “specializzate” che rispondono agli interessi di settori specifici.
La squadra del food&beverage. Le multinazionali e le catene del food
Per il food&beverage, considerando quanto l’industria alimentare e della ristorazione siano cruciali a ogni latitudine del mondo, Trump ha riunito un drappello tanto eterogeneo quanto scombinato. Questo perché, nell’ottica di bilanciare un chiaro appoggio presidenziale al mondo della grande industria e delle multinazionali del cibo con la necessità di dare voce anche al comparto della ristorazione, Trump ha pensato bene di fare spazio a quattro “corpi estranei” in una squadra che lavorerà soprattutto per tutelare gli interessi delle associazioni industriali e delle grande catene di ristorazione (le stesse che qualche settimana fa David Chang indicava tra le poche realtà del settore destinate a sopravvivere).
Cominciando dai nomi che più facilmente ci si poteva aspettare dal Presidente, il team annovera i ceo di catene come McDonald’s, Chick-Fil-A, Subway, Wendy’s, Papa John’s, Starbucks, ma sono rappresentate anche multinazionali come Coca Cola, Pepsi e Kraft (cui si aggiungono, per l’agroalimentare, colossi come Cargill, Tyson Foods, Perdue Farms, Corteva). Ma c’è spazio anche per l’Associazione nazionale dei distributori e per la National Restaurant Association.
I 4 chef. Chi sono e i limiti dell’operazione
E poi entrano in ballo gli chef, quattro grandi nomi della ristorazione americana, riconosciuti a livello internazionale e tutti curiosamente legati dall’ispirazione francese delle loro cucine e dall’appartenenza all’establishment dell’alta cucina USA: Thomas Keller, Daniel Boulud, Wolfgang Puck e Jean Georges Vongerichten. Gli stessi chef, qualche giorno fa, erano stati interpellati da Trump per fare il punto sulle richieste dei ristoratori in crisi a fronte delle spese da sostenere per mantenere i locali fermi. E come riporta Eater, la decisione di ammetterli alla task force sarebbe subordinata alla necessità di mettere a tacere i malumori del settore (David Chang sempre in prima linea) per la scarsa considerazione concessa ai ristoratori indipendenti (piccoli o grandi che siano). Ma mentre Keller riceve l’investitura “onorato e orgoglioso di far parte del gruppo di lavoro” con un tweet molto discusso, si fa notare il mancato coinvolgimento di rappresentanti delle minoranze etniche, di afroamericani e donne, che pure potrebbero (dovrebbero) rappresentare un gran numero di lavoratori impiegati nell’industria alimentare e della ristorazione americane. Lapidario, ancora una volta, il commento di Chang (che sì, in queste settimane, si sta decisamente facendo sentire): “Solo chi ha più denaro riuscirà a sopravvivere”. Ma si fanno sentire anche giornalisti apprezzati, antropologi e storici della gastronomia, tutti concordi nel definire la selezione operata da Trump arbitraria e non rappresentativa della realtà americana.
a cura di Livia Montagnoli