Ospitiamo una riflessione sugli snodi fondamentali che il settore si troverà ad affrontare. La firma un imprenditore di rango: Umberto Montano, fondatore del Mercato Centrale, il progetto nato a Firenze ormai 6 anni fa, che unisce vendita e somminstrazione, riunendo botteghe artigiane di qualità. Oggi il Mercato è anche a Roma e Torino, mentre il coronavirus ha bloccato l'inaugurazione della sede di Milano, nella Stazione Centrale, prevista per il mese di aprile 2020.
Covid19 e ristorazione italiana
Non sarà certo l’era del temibilissimo coronavirus che mi porterà a divenire lo scrittore o l’opinionista che non sono mai stato. Scrivere è una necessità che mi suscita un certo timore e mi ci sono sempre avvicinato con cautela: “come il tegame all’olio”, si direbbe dalle mie parti.
Non il virus ma l’indignazione, mi ha portato a scrivere le quattro cose che vorrei rappresentare al nostro governo, ai miei colleghi, agli amici che avranno la pazienza di leggermi perché l’indignazione urlata è figlia del coraggio che di questi tempi si può ben dirla con Totò, il “coraggio della paura”.
Il mondo della ristorazione e gli interventi insufficienti del governo
È noto a tutti che il comparto della ristorazione nel nostro Paese incluso tutto quanto gli è affine - bar, birrerie, paninoteche, pub, pizzerie e via dicendo - è uno dei feriti più gravi, quello praticamente fatto a brandelli dagli effetti economici della pandemia da Coronavirus.
È il comparto che molto difficilmente reggerà il colpo se gli interventi messi in campo, che per ora si possono solo intuire, dovessero essere quelli indicati nei decreti governativi e nelle ordinanze regionali che guideranno i nostri destini fuori dalla pandemia.
Quel che ad oggi offre il governo, infatti, non tiene in conto di alcuni dei problemi più gravi che affliggono tutti i ristoratori, e fa temere il rischio di portare all’esaurimento le già esigue risorse disponibili, senza che siano stati previsti quegli interventi più probabilmente utili a salvarne una gran parte.
I motivi dell'indignazione
Perché l’indignazione: il governo proclama interventi economici a vantaggio di tutte le categorie e, per quanto questi vengano fatti apparire poderosi, è facilmente intuibile che finiranno con l’essere inadeguati alla portata della pandemia. Si reclamano, legittimamente, sovvenzioni da più parti perché è indispensabile ristabilire un qualche equilibrio nei buchi profondi che il blocco totale delle attività sta infliggendo all’economia, ma al tempo stesso, oltre a cercar denari, sarebbe necessario definire regole nuove che la circostanza, del tutto nuova, imporrebbe di mettere in campo. Non si parla ancora di regole, per quanto appaia ovvio, non ne capisco la ragione e questo mi indigna.
L'esigenza di nuove regole
Servono regole apposite per ciò che sta accadendo. Regole che siano in grado di ridistribuire i danni in maniera equa con l’obbiettivo di generare, attraverso di esse, sinergie virtuose dove la partecipazione calibrata ai danni occorsi, adeguatamente ridistribuita, possa contribuire a evitare disuguaglianze di posizione che potrebbero essere letali per le categorie più esposte.
Insomma non serve solo il denaro pubblico che sappiamo tutti essere poco, ma anche una attenzione competente e mirata in grado di restituire un quadro normativo che equilibri i rapporti - anche fra privati - che il coronavirus ha sovvertito. Regole di armonizzazione che possano accompagnare la nostra comunità fino alla ripresa delle attività economiche. Regole giuste e contestualizzate, potrebbero coinvolgere una moltitudine di categorie economiche e non è difficile immaginare che potrebbero dare un buon contributo alla soluzione di alcune fra le più pesanti problematiche derivate dal coronavirus e con esborsi pubblici assai più contenuti.
Servono però due doti che, in un momento tanto grave, il cittadino è più che mai legittimato ad aspettarsi dal governo: volontà in buona fede e competenza.
I problemi della ristorazione
Per parte mia però vorrei parlare, nel concreto, della ristorazione che nella sua complessità rappresenta molte migliaia di piccole e medie imprese, che andrebbero salvate piuttosto che accompagnate al patibolo.
I grandi problemi della ristorazione sono i costi fissi, quelli che anche durante i tempi migliori, se non si controllano, possono determinarne la fine e che in particolare sono gli affitti e il personale. Per sostenere il comparto, il governo deve agire relativamente a questi due costi e in due direzioni: le regole e gli aiuti.
Le regole, l’affitto e le tasse fisse
Affitto
Non si può pagare l’affitto se l’attività economica resta chiusa o pesantemente ridimensionata per effetto della pandemia. Il credito d’imposta stabilito dalla norma in vigore non sopperisce, nei tempi e nei modi, alla totale mancanza di introiti che invece affligge l’impresa e risulta essere ancora più inutile ove, a causa del blocco dell’attività, non vi siano le imposte da pagare e quindi il credito da recuperare.
L’immobile, quasi sempre preso in locazione, è il fondamento dal quale la ristorazione produce il reddito per pagarne l’affitto. Questo valore cambia enormemente da posizione a posizione del locale e le variazioni sono tutte strettamente legate alla redditività che dalla posizione deriva. Sichiama per l’appunto rendita di posizione. In questo caso il suo valore viene totalmente azzerato dalla pandemia - la peggiore delle cause di forza maggiore - va da sé che se l’esercente è penalizzato dalla pandemia, il padrone di casa non piò rimanerne indenne facendosi scudo della disavventura occorsa al conduttore, ma piuttosto deve seguirne lo stesso destino.
Naturalmente c’è una profonda distanza di posizione fra gli interessi del padrone di casa e il suo inquilino. La questione apre una diatriba dove il diritto non incrocia la giustezza e sarebbe incolmabile senza un intervento normativo adatto alla circostanza. Se si verifica il totale azzeramento degli introiti per il commerciante, questo non può certo produrne uno per il locatore.
Per questo serve che il governo metta in campo la regola che ne dirima la questione. È del tutto sensato che l’esercente paghi l’affitto solo quando riapre e, piuttosto che immaginare un inadeguato contributo al conduttore, potrebbe rivelarsi più utile trasferire un pubblico aiuto al locatore.
Regole, anche semplici, dovrebbero stabilire come e in che misura farlo, usando l’attenzione di rimandare, con gradualità, l’affitto pieno al ritorno delle attività a pieno regime. Il governo non dovrebbe trincerarsi dietro il pur sacrosanto diritto del rapporto fra privati che purtroppo non prevede le circostanze determinate dalla pandemia.
L’intervento dello Stato anticiperebbe peraltro le inevitabili liti fra due parti avverse ma con altrettanta ragione di diritto e che di sicuro affollerebbero le aule dei tribunali.
Tasse e costi fissi
Questa interpretazione, che ristabilirebbe un equilibrio fra il commerciante e i soggetti che resterebbero protetti dalla sua posizione in prima fila deve riguardare tutti i costi fissi che trovano giustificazione solo in tempi normali: il suolo pubblico, le tasse di pubblicità o insegne, lo smaltimento dei rifiuti, le quote minime di acqua luce o gas e molte altre ancora. Tuitti costi, insomma, che ad esercizio chiuso per la pandemia, è del tutto iniquo che vengano sostenuti dall’esercente.
Gli aiuti e il personale
Fra i costi della ristorazione, il personale è quello che va gestito con maggior rigore. Le questioni in campo sono gravi perché vanno dalla salvezza delle imprese al bisogno primario di lavoro per il sostentamento delle famiglie. Qui serve, invece, l’aiuto dello Stato. È necessario che il pubblico contributo garantisca ogni lavoratore e lo sostenga durante tutta la fase dell’emergenza. Il governo deve fornire con maggior determinazione una cassa integrazione in deroga a cui accedere con meno artifizi burocratici possibili e per una durata adeguata ai reali bisogni dettati dalla crisi. Per una questione così delicata è quanto mai necessario il dialogo e la sinergia fra tre parti in causa: datore di lavoro, governo e lavoratore.
Al datore di lavoro bisogna chiedere di licenziare il meno possibile, pur permettendogli di stare in piedi, obbligandolo a garantire lavoro a tutto il personale che sia giustificato dal volume di affari; obbligarlo ad assumere, gradualmente e proporzionalmente al fatturato, tutti i lavoratori che aveva in forza ed eventualmente lasciati a casa per la pandemia, con l’obbligo di reintegra di ciascuno di loro per un periodo di almeno tre anni.
Al governo è richiesta una cassa integrazione in deroga senza esitazioni o complicanze e di ragionevole durata per tutti i salariati che le aziende, giustificate dalla mancanza di lavoro, non si possono permettere di riassumere.
Il lavoratore va messo difronte, purtroppo, alla tragedia più grave della pandemia che è seconda solo ai decessi: il fallimento delle imprese. Se le aziende falliscono quel lavoro non ci sarà più.
Mai più!
Umberto Montano
fondatore del Mercato Centrale