L’indirizzo non compare, anche se tutti sanno dov’è. La strada è spesso tranquilla, talvolta anonima. Dall’ingresso di un baretto o una latteria o magari una panetteria qualcuno, con un’aria cospiratoria degna di un carbonaro risorgimentale, dà accesso al secret bar, lo speakeasy del momento. Che tanto segreto non è, tanto che svetta spesso in cima alle classifiche dei migliori bar del mondo. Ma dà l’impressione di essere lì per pochi, intimi connoisseurs, giunti da lunghe o brevi distanze per provare le ultime novità in lista.
Nuova vita e nuovi segreti
Già perché ormai, dopo decenni di chef maître-à-penser, seguiti e idolatrati come e più di rockstar ormai sul viale del tramonto, la bolla sta per scoppiare e va rimpiazzata. Fuori (per modo di dire, ma insomma diciamo un po’ meno seguiti) gli chef, dentro i bartender. Scopriamo così che quei beveroni colorati con l’ombrellino cui non avevamo poi dato così tanta attenzione, quelle 77 ricette IBA possono diventare complesse come un piatto stellato, con lavorazioni lunghe, distillati, materie prime fresche e ricercate. O magari, come vuole la Weltanschauung, no waste e recuperate da bucce, torsoli, gambe e foglie.
Turismo da bar
Così i cocktail bar sembra si moltiplichino ma soprattutto si differenziano. Arrivano le guide, per segnalare i migliori, quelli ormai diventati meta turistica a sé. Se si passa per Atene, non si può non fare tappa nella palazzina neoclassica con neon rossi all’entrata di Clumsies. Ma la capitale greca, con quel delizioso spirito anarchico, ha fatto pure le cose al contrario e invece di nascondere un bar dietro lo ha messo davanti: così di fronte allo speakeasy Rumble in the Jungle ha aperto, sulla strada, The Bar in Front of the Bar. Città del Messico ha ormai archiviato sombreri e mariachi, e persino l’icona mondiale Frida Kahlo sembra aver ceduto il passo ai bar del momento, come Licoreria Limantour. Per non parlare di Barcellona, assurta agli onori delle cronache per il Paradiso, il miglior bar del pianeta. Nascosto, pure lui, dietro la porta del frigorifero di un negozio di pastrami, cibo rumeno che più pop non si può.
Come alla Scala
Per accedere a questo gotha della mixology globale, in cui spesso la musica, dal vivo con contrabbasso e pianoforte, non invade, ci si prepara un po’ come andare alla Scala. Si parla sottovoce e si entra vestiti con cura, non certo con il primo straccio che si trova nell’armadio, insomma. Pena il rischio di essere lasciati alla porta.
Ma il pubblico esercizio?
Stando così le cose ci si chiede: ha ancora senso chiamarli pubblici esercizi? Ovvero come da definizione Treccani, occasioni pubbliche, a cui può partecipare chiunque. Perché in fondo, proprio così si chiamano, ancora, i bar, inclusivi luoghi di aggregazione, dove da due secoli e più ci si incontra e si fa festa, magari si discute e ci si accalora, o si va per evitare situazioni spiacevoli in casa o in famiglia. Luoghi popolari dove a qualsiasi ora capita di incontrare la conoscenza di vecchia data, o alla meno peggio un barista con un orecchio amico, con cui scambiare quattro chiacchiere leggere.
Riprendiamoci il bar
Vien da chiedersi: tutto questo rumore il bar lo nobilita (è indubbio che sono migliorate le materie prime, che si fa più ricerca) o gli sta facendo perdere la sua anima?
Così sembra pensarla Carola Abrate del Dirty di Milano, bar notturno aperto lo scorso marzo con un’idea precisa: “Abbiamo voluto un locale che si rifà agli anni ‘90, quando i bar erano luoghi in cui si andava per divertirsi, senza curarsi troppo di come ci si vestiva. Però, abbracciando il miglioramento delle tecniche e delle materie prime, perché oggi è indubbio che si beve meglio di allora”.
Che sia l’inizio di una nuova tendenza? Perché di certo siamo contenti di bere meglio, ma riprendiamoci il bar, o meglio il pubblico esercizio. Un posto per tutti, senza ansie da prestazione, di qua e di là dal bancone, divertente e rilassante. Non è forse quello di cui abbiamo bisogno, almeno per uno spicchio di giornata, al calar della sera?