D’accordo: non ci aspettavamo una stella a una pizzeria, che più se ne parla e più si allontana secondo un paradosso tipico da Michelin. Né che avvenisse il miracolo di un macaron a Diego Rossi di Trippa o Paolo Gori di Da Burde, ché per i prodigi ormai l’abbiamo capito, a Parigi non sono attrezzati. Ma era lecito aspettarsi un po’ più coraggio dall’edizione 2025 della Rossa, presentata con grande pompa e qualche gaffe (vedi l’inversione dei nomi di Roberto Di Pinto ed Enrico Croatti da parte della trepidante presentatrice) sul palco del Teatro Pavarotti-Freni di Modena, davanti ai loggionisti gastronomici poco avvezzi a contestare. La novità più rilevante è la terza stella consegnata a un grande quasi vecchio della cucina italiana, Giancarlo Perbellini, uno che compirà sessant’anni a settimane e che è alla guida di un ristorante, i Dodici Apostoli, che era stellato già nell’edizione 1959 della guida dei gommisti. Un onore meritatissimo per lo chef veronese, che si è anche commosso sul palco, e quindi bravo; ma non un buon segno per lo stato di salute dell’alta cucina italiana vista dalla Francia.
Avanguardia, bellezza!
A preoccupare non è tanto la diminuzione dei ristoranti stellati complessivi per la prima volta a mia memoria (erano 395, sono 393), visto che la Michelin è piena di rami secchi e che sfoltire un po’ non può che essere salutare. Una pianta se vuole crescere bene deve dire addio alle foglie ingiallite. Se ne dorranno semmai i territori che non hanno più astri nella loro volta, che perderanno i lauti incassi garantiti all’indotto dalla presenza di un ristorante che esibisce la placca rossa all’ingresso, secondo i calcoli della Michelin stessa, da noi ampiamente analizzati nella loro inconsistenza. Ma il problema è che nella hall of fame della Michelin sembra scomparsa l’avanguardia: Alberto Giopponi di Dina a Gussago, a cui la guida Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso ha poche settimane fa spalancato le porte delle tre forchette, quando si parla francese rimane muto: zero stelle. Riccardo Camanini che da qualche anno è il primo italiano a piazzarsi nella elettrica lista dei 50 Best nella rossa si immalinconisce con una stella ormai un po’ impolverata.
Diamo una spolverata
Terry Giacomello, l’ultimo degli spagnoli, che nel suo Nin sul lago di Garda porta avanti un discorso davvero modernista, sta anche lui immobile con una stella. Il padre della cucina molecolare italiana, Ettore Bocchia di Mistral, la stella l’ha persa anni fa e non l’ha più riconquistata malgrado la sua cucina sia ancora potentemente espressionista. Emerge insomma una certa predisposizione da parte degli ispettori della Michelin, naturalmente con le debite eccezioni, a premiare insegne rassicuranti, affidabili, classiciste. I bourgeois sono stati épaté tanti anni fa, ora meglio un po’ di ancien régime. E infatti ogni ristorante che Enrico Bartolini o Antonino Cannavacciuolo aprono in Italia ricevono la stella quasi pavlovianamente: quest’anno il toscano ha raddoppiato la stella del Casual bergamasco e il campano ha addentato due nuovi macaron in Piemonte. Li chiamano mentori, li onorano per questo ma l’impressione è che siano premiati più per il loro concetto fordiano del fine dining, riproducibile cambiando gli interpreti più o meno dovunque. Certo, è talento anche questo, però che noia.
Il presente è il passato che ce l'ha fatta
Certo, il fine dining non se la passa bene in Italia. La gente, dicono dotti medici e sapienti, just want to have fun, vuole solo divertirsi, anche a tavola. Non si va a mangiare per psicanalizzare i tormenti interiori di uno chef inquieto, meglio semmai i placidi ricordi nonneschi che scaldano come un plaid sulle ginocchia. Così va il mondo gastronomico adesso, il presente è solo un passato che c’è l’ha fatta. Ma, badate, in ogni campo è l’avanguardia ad alimentare il sol dell’avvenire, non certo il manierismo. Per questo la Michelin 2025, spente le luci modenesi, asciugate le lacrime e azzittiti gli applausi, non rende merito alla cucina italiana del presente, ma soprattutto del futuro.