Se gli effetti della filossera sul mondo del vino sono ben (e tristemente noti), è interessante scoprire che l’impatto del parassita non ha riguardato solo il mondo del vino, ma direttamente o indirettamente anche quello dei distillati. Basti pensare a uno dei cocktail classici tutt’oggi più amati nel mondo, ovvero il French 75 (che prende il nome dal calibro di un famoso cannone dell’esercito francese usato durante la prima guerra mondiale), che nella sua versione originale era a base di Cognac, ma che oggi provate viene servito con base alcolica Gin. Il motivo? Il pregiato distillato di vino francese era praticamente estinto negli anni bui del morbo della vite. Una conseguenza positiva, invece, è stata la nascita delle grappe invecchiate: proprio in quegli anni, infatti, in alcune zone d’Italia, tra cui il Veneto, si cominciò a mettere la grappa in botti di legno per conservarla in vista della futura scarsità. Ma alcuni degli effetti indiretti della filossera non sono stati percepiti lì per lì, bensì anni dopo, quando il problema paradossalmente era stato risolto.
La vite americana e i vigneti proibiti
In molte zone d’Italia, in quegli anni senza vino (che allora era più di un puro piacere edonistico, era parte dell’alimentazione e dell’economia delle famiglie contadine) si cercarono altre soluzioni per salvare la produzione, e forse la più efficace venne da oltre Oceano. Moltissimi italiani erano migrati in America, e alla richiesta d’aiuto proveniente dal vecchio mondo risposero come potevano: portarono a casa le viti americane ibridate, sostituendo un’incrocio di Vitis Riparia e Vitis Lambrusca alla tradizionale e superiore Vitis Vinifera. Il risultato non fu all’altezza dei vini precedenti, ma diede respiro a un settore in ginocchio. Per alcuni anni la situazione andò avanti così, e soprattutto nel Nord Italia queste viti si diffusero fino a quando il regime fascista, nel 1936, le rese illegali e ne vietò la coltivazione. Il motivo della proibizione fu duplice: da un lato si poteva, grazie agli innesti, tornare a coltivare vigneti più italici, dall’altro questi vitigni davano vini con un grosso problema: la tendenza a sviluppare alcol metilico, sostanza che può provocare danni alla salute. Un divieto mantenuto anche durante la Repubblica e confermato dall’Unione Europea, e ancora oggi i vini prodotti da queste viti americane sono a tutti gli effetti illegali. Non solo: la legge italiana impone l'estirpazione delle viti, ma manca un decreto attuativo, inoltre alcune leggi regionali in Italia consentono la coltivazione ma non la commercializzazione.
Il Clinto oggi
Nella maggior parte d’Italia di questi vitigni si è persa traccia, ma esistono province dove è ancora possibile incontrarli. Nella provincia di Vicenza, per esempio, manzonianamente “un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi in ferro", circondata com'è da zone più vocate per la viticoltura come Verona, Padova e Treviso. Qui il Clinto o Clinton - come viene chiamato da queste parti - è ancora presente, relegato a produzioni familiari che lo custodiscono di nascosto, con l’affetto che si riserva al vino del nonno. I problemi del metilico ci sono sempre, e se pure è vero che quando lavorato con accortezza il contenuto di questa sostanza è irrilevante, la legge vieta di produrre vino da viti americane. C'è poi una zona oscura, forse non ancora sufficientemente considerata: la distillazione della grappa, reputata per molto tempo collaterale della produzione del vino.
La produzione della grappa e la rettificazione
Partiamo da alcuni presupposti metodologici: la grappa si ottiene dalla distillazione delle vinacce, nelle quali sono presenti componenti volatili che durante il riscaldamento evaporano e vengono trasferite nel liquido distillato. Molte di queste sostanze sono sgradevoli, quindi indesiderate, e vanno eliminate; cosa possibile perché le componenti volatili evaporano a temperature diverse: è possibile tagliarle, mantenendo solo le sostanze di qualità, lavorando proprio sul controllo delle temperature.
Questo processo, chiamato rettificazione, viene eseguito escludendo la prima parte che esce dall’alambicco, ovvero le teste, e l’ultima, ovvero le code. La testa è la prima parte del distillato a uscire dall'alambicco e contiene prevalentemente sostanze che conferirebbero alla grappa un odore acre e sgradevole, oltre a una piccola parte di alcol metilico che come sappiamo è tossico, e quindi va eliminato. Segue la parte centrale, ovvero il cuore, che è quello che poi beviamo, infine arriva la coda, la parte finale che contiene sostanze piuttosto grasse e oleose. Questo metodo di lavorazione permette di eliminare il metilico sia dalle uve normali, sia da quelle illegali. Ma se la legge proibisce la materia prima, a nulla serve il fatto che la si possa distillare in tutta sicurezza ottenendone grappe la cui storia è ormai più che centenaria. Eppure c’è chi non si arrende, e continua solitario la battaglia della sopravvivenza del sapore.
La quinta generazione della Distilleria Schiavo
Come per la maggior parte delle distillerie del Nord-Est, la storia degli Schiavo inizia quando un ascendente decide di fermare da qualche parte il carretto della distillazione porta a porta e di dare vita alla propria azienda sedentaria. Nel caso di questa famiglia, il nome ancestrale è quello di Domenico Schiavo, di professione mediatore di terreni e distillare a domicilio con alambicco mobile trainato da cavalli. Nel 1887 decide di impiantare un distillazione fisso nel sottoportico di casa, dando vita alla Distilleria Schiavo di Costabissara, che per cinque generazioni ha lavorato ininterrottamente arrivando ai nostri giorni.
Oggi a guidarla c’è Marco, distillatore radicale che ha deciso di unire il meglio della propria storia (come il rispetto di tempi e quantità: impiega unʼora e mezza per distillare 700 kg di vinacce, ottenendo allʼincirca 30 litri di grappa a tutto grado) al fianco a progetti di liquoristica temerari, lanciandosi in settori dominati da colossi multinazionali - come il Bitter ed il Fernet - con un prodotto d’altissima qualità artigianale, partendo da un alcool di frutta e arrivando a una netta discesa degli zuccheri contenuti.
La Proibita
Nonostante il successo di questi prodotti potrebbero tranquillamente garantirgli la sua posizione comoda nel mercato, il biondo master distiller non si accontenta di vivere il proprio lavoro come una pura attività economica, bensì la interpreta come una missione, e all’interno di essa risiede il desiderio, o meglio la necessità, di non far morire il sapore della grappa proibita. Da qui la decisione di continuare a produrla, mettendola prima sul mercato con il nome delle uve in etichetta, poi, a seguito di una multa e di contestazioni legali (se la grappa si ottiene dalle vinacce, le vinacce dal vino, e il vino dalla Vitis vinifera, il distillato di vinacce di non vino non può essere grappa per un banale sillogismo aristotelico) ha deciso di cambiarle di nome. Nasce così La Proibita, che si racconta in etichetta come distillata da “uve nere della tradizione contadina”, dizione non discutibile e non truffaldina. Un atto di disobbedienza civile compiuto in tutta sicurezza, un messaggio segreto per chi sa cogliere, e vuole assaggiare la grappa come la si beveva una volta in Veneto.
Uno dei paradossi di questa storia infatti è proprio questo: se vi capiterà di parlare con qualche amante dei vini, vi dirà a colpo sicuro che sebbene le viti americane abbiano salvato la viticoltura europea, ne hanno per sempre cambiato il gusto, e non avremo mai più i vitigni originali in quanto tali e quindi i loro vini: insomma, non berremo più gli stessi vini dei nostri bisnonni. Al contempo ora sarebbe il momento di comprendere che stiamo rischiando di infliggere la stessa distorsione al mondo della grappa, perché dove non arrivò la legge della natura poté quella dell’uomo. E forse è il momento di aprire una discussione in tal senso.
https://www.schiavograppa.com/grappa-la-proibita.html
a cura di Federico Silvio Bellanca