La birra trappista. Cos’è
Ben prima che la birra artigianale e la cultura brassicola promossa dai microbirrifici indipendenti prendesse piede in Italia, l’immaginario collettivo ha sempre riservato alle birre trappiste una certa deferenza, merito di storie leggendarie e antichi monasteri. E di sicuro il racconto romanzato delle birre d’abbazia ha sempre avuto la capacità di affascinare un pubblico trasversale. Ma fuor di dubbio i segreti della fermentazione tramandati al riparo delle mura di alcuni monasteri d’Europa e del mondo oggi sono assoggettati a regole di mercato molto più stringenti di quanto lascerebbe supporre la storia degli ultimi secoli. Tanto che parlare di birra trappista significa riconoscere il rispetto di un disciplinare più che un preciso stile birrario, e considerare l’esistenza di un marchio di riferimento - il logo esagonale dell’Authentic Trappist Product, ideato nel 1997 – di cui solo chi si attiene alle regole può fregiarsi: non solo la birra dovrà essere prodotta all’interno dell’abbazia di riferimento, ma a controllare ogni fase del processo saranno personalmente i membri della comunità monastica. E, clausola non trascurabile, i ricavi delle vendite dovranno essere utilizzati dall’Ordine per finanziare attività caritatevoli. In osservanza di queste prerogative, oggi gli impianti trappisti riconosciuti nel mondo sono undici, sei concentrati in Belgio, dove il movimento ha avuto origine, solo uno extraeuropeo (negli Stati Uniti della Saint Joseph’s Abbey, a Spencer), e pure un’abbazia riconosciuta per l’Italia, l’ultima entrata nel gruppo, a Roma, dove la comunità delle Tre Fontane produce le proprie birre.
L’abbazia di Westvleteren
Ma certo a fare la storia del genere è stata, tra le mitiche abbazie trappiste del Belgio, la comunità di San Sisto a Westvleteren. La località, che ha mantenuto il suo riserbo anche grazie alla posizione piuttosto defilata nell’ovest del Paese, dà il nome a una delle birre d’abbazia più difficili da reperire (e questo ha contribuito a costruirne il mito): l’impianto, di dimensioni ridotte, garantisce una produzione limitata – tre le etichette, Blond, 8 e XII – e normalmente le birre possono essere acquistate solo presso l’abbazia, su prenotazione e in numero limitato (dettagliatissimo il regolamento illustrato sul sito), specie la XII, una quadrupel molto apprezzata dagli estimatori del genere e annoverata tra le migliori birre del mondo. E molti altri sono gli elementi che nel tempo hanno contribuito a intensificare l’aura leggendaria che circonda il birrificio di Westvleteren: fondato nel 1838, sono cinque i monaci che seguono personalmente la produzione, altrettanti quelli addetti all’imbottigliamento, anch’esso peculiare, vista l’assenza del marchio esagonale e di qualsivoglia etichetta che descriva il prodotto, eccezion fatta per l’indicazione della gradazione alcolica sul tappo.
Birra trappista al supermercato. Si può?
Figurarsi il trambusto procurato un paio di settimane fa a questo sistema che si tramanda sempre uguale nel tempo dall’iniziativa di un supermercato tedesco che ha scelto di distribuire settemila bottiglie di Westvleteren senza il permesso dei monaci di San Sisto. Le birre, esposte sugli scaffali di una filiale della catena Jan Linders, sono state vendute al prezzo di 10 euro ciascuna, scatenando le proteste della comunità, che dell’incauta iniziativa ha contestato principalmente la commercializzazione a fini di lucro – e a prezzo maggiorato di circa 10 volte superiore all’originale - contraria alla filosofia della birra trappista. Non è la prima volta che la difficile reperibilità delle birre Westvleteren spinge i piccoli distributori a rivenderle a prezzi maggiorati contro le prescrizioni dell’abbazia. Ma i monaci di San Sisto non si stancano di ripeterlo: l’unico modo per assicurarsi una bottiglia è avere tanta pazienza e un pizzico di fortuna. Intanto auspicano “che un episodio del genere non si ripeta mai più”.
a cura di Livia Montagnoli