L'Atelier di Joel Robuchon. Perché è stato rivoluzionario
A New York, Joel Robuchon è di nuovo in pista da circa tre mesi. Un ritorno, e non un debutto, quello del maestro francese di Poitiers che nel mondo ha esportato con intuito e arguzia la cucina di cui da decenni è ambasciatore, brevettando il format – destinato a fare proseliti – dell'Atelier. Era il 2003, e da Parigi cominciava la fortuna del ristorante dove la cucina, e l'ideazione del piatto, acquistano un ruolo centrale nell'economia dell'esperienza gastronomica: un sushi bar all'occidentale, o una rielaborazione del tapas bar, l'ha definito qualcuno, ma l'ispirazione Robuchon l'ha trovata in casa, ripensando le dinamiche dell'atelier d'artista nella sfera di pertinenza del cibo. La prima cucina a vista d'autore francese progettata per interagire col commensale, fatto accomodare rigorosamente al bancone. Un cambiamento radicale per l'epoca, specie se aggiungiamo il fatto che all'Atelier la prenotazione non era obbligatoria, e si poteva mangiare fino a tarda ora: uno spazio raffinato, ma disinvolto, che non rinnegava la storia della ristorazione parigina, ma la ripensava rinfrescandone la liturgia all'insegna della convivialità, complice un servizio competente e fresco. Molti, e non solo a Parigi, ne avrebbero preso la scia.
Da intuizione a catena internazionale
L'Atelier, dal canto suo, era ben instradato verso il successo: prima l'apertura a Tokyo, proprio nella patria dei sushi bar. Poi, repliche in tutti i continenti, da Las Vegas a Londra e Hong Kong, passando per Taipei e Singapore. Dodici, a oggi, gli Atelier aperti nel mondo, con una storia molto particolare a New York: nel 2006 la sede newyorkese apriva all'interno del Four Seasons Hotel, a Midtown, conquistando due stelle Michelin. Poi, nel 2012, la chiusura definitiva, dopo qualche problema di gestione di troppo. A cinque anni di distanza, il ritorno in grande stile, nell'elegante spazio al Meatpacking District, già sede di Colicchio&Sons: cucina a vista e 34 sedute al counter, per osservare gli chef all'opera, più uno spazio dedicato al Bar, con scenografica bottigliera a parete e 56 posti a sedere, per bere un drink e consumare un pasto più informale alla carta. Pareti in mattoncini caratteristiche del contesto e consueta alternanza di rosso e nero, colori universalmente associati al brand. Due i menu degustazione, uno esclusivamente vegetariano, da nove portate ciascuno, per una spesa che in entrambi i casi supera i 200 dollari.
Il ritorno a New York. Cosa ne pensa Pete Wells
Una rinascita salutata con entusiasmo dalla città alla vigilia dell'inaugurazione, che però incappa in una sonora battuta d'arresto a distanza di qualche mese appena: a pesare sul ritorno di Robuchon (che pure alla fine del 2018 raddoppierà in città con un fine dining di più ampio respiro) è il giudizio di Pete Wells, temibile critico gastronomico del New York Times. A Wells, che l'Atelier sembra conoscerlo molto bene, il locale nuovo di zecca, l'accoglienza come il cibo assaggiato (al netto di tre diverse prove), non è piaciuto. Tutto molto disciplinato, argomenta nel dettaglio Wells, ma niente che lasci il segno o ricordi il divertimento degli inizi, fatta eccezione per rarissimi piatti, comunque proposti a prezzi elevati. Un'ammissione di indifferenza che viste le ambizioni dell'insegna sa di bocciatura (da due stelle su cinque, il bilancio finale). Se non fosse per un particolare curioso, che chiama in gioco anche l'Italia.
Sfera di zucchero soffiato ripiena di sorbetto al limone e gelatina al basilico, Salvatore Martone
Applausi al pastry chef. L'italiano Salvatore Martone
Il critico del Times indugia con piacere sulle prove convincenti del laboratorio di panificazione e pasticceria: tanto il pane servito in tavola che i dessert ordinati a concludere il pasto sono apostrofati in modo lusinghiero, con nota di merito per il soufflè al cioccolato, “uno dei più ariosi e raffinati della città”. Soddisfazioni che piovono su chi alla preparazione di pane e dessert presiede: il giapponese Tetsuya Yamaguchi in panetteria, l'italiano Salvatore Martone in pasticceria. Ma chi è il pastry chef che strappa l'approvazione di Wells? Natali napoletani, Martone è nella squadra di Robuchon da 12 anni. All'inizio della carriera, però, era avviato verso la pizzeria: presto, abbracciando il mondo della panetteria, ha maturato l'interesse per la pasticceria, e dopo gli studi all'Istituto Superiore di Arti Culinarie di Venezia è approdato in America, per frequentare la French Pastry School di Chicago. Nella famiglia dell'Atelier ha esordito a Las Vegas, prima di approdare a New York durante gli anni del Four Seasons. Ora è tornato in città per assumere la qualifica di Executive Pastry chef del nuovo Atelier. E negli anni ha maturato una predisposizione particolare per la lavorazione del cioccolato, che ben sposa l'idea di conciliare gusto ed estetica a livelli di grande raffinatezza, in primis visiva. Qualità che gli sono valse numerose riconoscimenti, e che ne fanno uno dei più stimati pastry chef d'America. Italiano, come molti suoi colleghi che si muovono in prestigiosi ristoranti del mondo.
L'Atelier di Joel Robuchon – New York - 10thAvenue, 85 – joelrobuchonusa.com
a cura di Livia Montagnoli