Il kimchi non è solo un piatto della cucina coreana, è simbolo di un’intera popolazione e ne rappresenta l’identità culturale. Non si può dire che ci sia una ricetta perfetta: in ogni regione della Corea viene realizzato con ingredienti diversi, che cambiano anche a seconda della stagione. Una cosa è certa, per prepararlo le verdure sono sottoposte a fermentazione, un processo che insieme all’uso di spezie genera il tipico gusto sapido e acidulo che lo caratterizza. Quel gusto pungente che col tempo è stato in grado di conquistare anche il pubblico di Milano, prima nei numerosi ristoranti coreani presenti in città e poi raggiungendo anche spazi inaspettati.

Che cos’è il kimchi?
Innanzitutto è bene chiarire di cosa stiamo parlando. Il kimchi è una ricetta coreana millenaria, che trovò larga diffusione in una terra dove i cibi fermentati andavano per la maggiore. Le sue origini risalgono a una pratica collettiva chiamata Kimjang e divenuta Patrimonio culturale immateriale dell'umanità dell’UNESCO nel 2013: il kimchi veniva preparato in grandi quantità da tutti gli abitanti dei villaggi, gli ingredienti venivano messi a riposare in vasi di terracotta e poi conservati per l’utilizzo comune durante l’inverno.
Col tempo quella che era una tecnica per prolungare la vita degli alimenti si è trasformata pian piano nel concetto di kimchi che conosciamo oggi. Cavolo Napa e ravanelli sono le verdure più gettonate da usare come base, mentre l’aggiunta di spezie, peperoncino tritato (chiamato gochugaru), zenzero, aglio o salsa di pesce le arricchisce di nuove sfumature. Combinazioni di ingredienti sempre diverse danno vita alle innumerevoli varianti di kimchi che oggi si consumano quotidianamente in Corea, sia come contorno che come ingrediente per condire altre preparazioni. Il risultato (gustativo ed estetico) è decisamente più intenso rispetto a una classica giardiniera, ma questo non ha spaventato i curiosi dal resto del mondo... e da Milano.

Il kimchi conquista Milano
Sarà che ultimamente se ne parla anche in termini di superfood per via delle sue proprietà digestive, antiossidanti e antinfiammatorie, ma il kimchi oggi non è più solo prerogativa dei ristoranti coreani, come lo storico Ginmi. La sua presenza è andata persino oltre i locali dall’impronta orientale, come il frequentatissimo Casa Ramen. Ora il kimchi arriva nei bistrot e nelle vinerie, specialmente dove la tecnica della fermentazione si integra perfettamente con filosofie di cucina naturale e sostenibilità.
Conservare la bontà di un ingrediente e conferirgli una nuova identità è sicuramente un buon motivo per proporre il kimchi. L’ha preparato lo chef di Mater Bistrot, Alex Leone, nella versione classica con cavolo oppure in una rivisitazione per allungare l’estate: il kimchi di anguria.
Si entra anche in territori food porn grazie al grande panificatore Davide Longoni, che ha messo kimchi e formaggio filante in uno dei toast più clamorosi del suo Totost. Ma lo propone anche Citra Beerstrot, dove fra birra e kombucha la fermentazione non è di certo un argomento secondario, e lo fa utilizzando il kimchi della gastronomia coreana li-sei deli.
Terreno fertile per Erin Eun-Young Kim e Mark Blackwell, marito e moglie che hanno deciso di cambiare vita, trasferendosi da New York a Milano e diventando produttori di kimchi artigianale realizzato in Italia (Kimchi Pop). Ed ecco che iniziano a spuntare serate speciali a tema kimchi, come quella tenuta di recente da Via Stampa, quella organizzata da Erba Brusca in collaborazione con li-sei deli (3 aprile) o quella da Chuck’s in collaborazione con Kimchi Pop (29 marzo).
Insomma, la popolarità è in crescita e le possibilità fusion si fanno sempre più interessanti. Stiamo forse per entrare nell’era del kimchi?