Jamie Oliver: “Colpa della Brexit”
Effetto Brexit, un anno e mezzo dopo. Un cambiamento sociale temuto da molti che, fra le varie preoccupazioni generali, ha scatenato anche il panico di importatori di prodotti alimentari. Made in Italy compresi. Instabilità, cambiamento negli assetti economici europei, nuove norme, tasse e possibili ostacoli per chi decide di fare impresa: questo era lo scenario che nel giugno 2016 si presentava nel Regno Unito. Molti fra ristoratori e imprenditori hanno infatti incolpato la Brexit delle problematiche economiche che stanno vivendo. Fra questi, Jamie Oliver, inglese doc ma particolarmente legato all'Italia e alla sua cucina, di cui si è fatto ambasciatore sul piccolo schermo come nelle scuole del Regno, e nei suoi numerosi ristoranti in lunghi anni di successi mediatici e imprenditoriali che ora paiono appannati. “Acquistare i prodotti dall’Italia è sempre più oneroso, e noi che non vogliamo diminuire la qualità dei nostri locali non riusciamo più a sostenere lo sforzo”, riferiva l'estate scorsa l’ad del Jamie Oliver Restaurant Group al Telegraph.
La chiusura dei ristoranti
Certo, continuare a far quadrare i conti si fa ancora più impegnativo quando sei a capo di un impero della ristorazione, con ben 42 ristoranti solo in Gran Bretagna, e altre 28 insegne nel resto del mondo. Risale ancora al giugno 2017 la notizia della chiusura di 6 locali della catena Jamie's Italian sul suolo inglese, una decisione che è costata il lavoro a ben 120 dipendenti. Il gruppo, però, non ha tardato a fornire le prime rassicurazioni, spostando l'attenzione sulle nuove (22) aperture previste nel resto d'Europa, da Dusseldorf a Reyakiavyk. Dichiarazioni rincuoranti, positive, tanto che i più maligni avevano iniziato a ipotizzare motivazioni ben più prevedibili dietro alla decisione di chiudere i 6 locali inglesi: secondo molti, in patria l’insegna non sarebbe stata più in grado di sostenere la concorrenza agguerrita di nuovi competitor, come dimostra il calo netto degli incassi registrato tra il 2015 e il 2016, da quasi 4 milioni di sterline di fatturato a 2,3 milioni. Il problema, dunque, non erano solo le spese per le forniture bensì, a quanto pare, gli incassi che in alcune insegne della Gran Bretagna non erano stati all’altezza.
I debiti
Infatti, anche un anno e mezzo dopo la Brexit, dopo la chiusura dei ristoranti, i progetti, i diversi tentativi per rientrare, lo chef si ritrova sommerso dai debiti. Nessuna delle iniziative dei suoi piani di espansione si è concretizzata. Tutt'altro: secondo quanto riportato dal quotidiano inglese Sun, la quota di debiti di Jamie Oliver oggi ammonta a 71,5 milioni di sterline. La società deve dunque chiudere 12 delle sue insegne britanniche, che costeranno il lavoro a ben 450 dipendenti. Secondo i documenti del tribunale, il gruppo deve altri 41 milioni di sterline ai creditori, più oltre 2 milioni al personale del ristorante. Senza contare gli arretrati con i fornitori (263mila sterline a un venditore di pesce fresco, 133mila a un panificio all'ingrosso, tanto per citarne alcuni).
Le spiegazioni dello chef
Ma gli insuccessi della chef-star non finiscono qui: lo scorso autunno Oliver è stato citato in giudizio dal Gluten Intolerance Group del Nord America per aver utilizzato impropriamente il marchio GF (gluten free) nel suo programma The Naked Chef, e, nello stesso periodo, si è ritrovato ad affrontare la bancarotta della sede del Jamie's Italian di Istanbul. Ancora una volta, lo chef incolpa la Brexit, ma anche una serie di “amici con cui non avrei dovuto collaborare come partner commerciali”. Se a inizio 2014 la fortuna di Oliver era stimata circa 150 milioni di sterline, i rapporti recenti parlano di 90 milioni. La società, nel frattempo, rassicura i clienti più affezionati: “Abbiamo un marchio forte e siamo decisi a continuare a mantenere gli alti standard di servizio, gusto e esperienza che i nostri clienti di fiducia meritano”. I membri della società si definiscono “fiduciosi”, e sperano di poter salvare posti di lavoro e rapporti con i fornitori attraverso l'approvazione del Company Voluntary Arrangement (CVA), ovvero un accordo che un'impresa con problemi di debito stipula con i propri creditori commerciali per cercare di evitare il fallimento, chiedendo un rimborso da parte di tutti per un periodo di tempo concordato.
In attesa di nuovi sviluppi, sono tanti i dubbi e le perplessità che si annidano fra i consumatori. Certo è che dopo un 2017 molto difficoltoso, il nuovo anno per lo chef non è cominciato nella maniera migliore. Fra lo scetticismo generale, comincia a farsi largo però una sensazione sempre più netta ed evidente: che la Brexit non sia solo un convincente capro espiatorio per evitare di ammettere che alcuni locali, come è possibile che accada, non girano più tanto bene?
a cura di Michela Becchi