A 60 anni dalla prima bottiglia, la Franciacorta è pronta ad alzare l’asticella, mettendo nel mirino una serie di tasselli da apportare in un quadro produttivo sempre più competitivo. Il biologico - oltre i 2/3 della denominazione sono bio - è solo il mezzo: sul tavolo ci sono lavori che mettono insieme i risultati sui livelli di biodiversità e un catasto storico delle vigne per capire davvero quali sono i cru dal valore distintivo nel bicchiere. Intanto, procedono le ricerche scientifiche su un vitigno, l’erbamat, coltivato in zona già nel 1564 e riscoperto solo negli ultimi anni. I primi risultati sono molto incoraggianti. Ne parliamo con Silvano Brescianini, presidente del Consorzio e direttore generale della cantina Barone Pizzini.
Due appunti dopo aver assaggiato circa 500 cuvée, praticamente l’intera produzione dei Franciacorta: la qualità media è in netta crescita, rarissimo trovare Franciacorta con difetti e sono davvero tanti i punteggi elevati per pulizia aromatica e precisione tecnica. Il secondo aspetto, in mezzo a una qualità così diffusa, sembra mancare un po’ di coraggio e imprevedibilità. Si può rischiare di più?
Condivido questa riflessione e io la vedo come un’evoluzione positiva. Bisogna considerare che si tratta di un percorso, lavorare con la rifermentazione in bottiglia richiede tempo e cultura. Bisogna capire come pressare per evitare di estrarre note amare, diversificare i tempi di raccolta, lavorare tanto sui dettagli, presuppone un modo di intendere il vino. Intanto, abbiamo messo a posto le fondamenta: un prerequisito di pulizia che rappresenta la pagina prima. E in questo senso abbiamo sicuramente un vantaggio su tutte le zone in Italia che stanno scoprendo da poco la passione per il Metodo Classico, da Pantelleria alla Valle d’Aosta.
Passo successivo?
Ora, stiamo entrando in una nuova fase, abbiamo le viti che stanno crescendo di età, abbiamo maggiori conoscenze delle nostre vigne e terreni, è tempo di evidenziare sempre più la mano dei suoli e della cantina. Non è più una questione tecnica, ma sono passaggi che richiedono tempo e pazienza.
A propositi di tecnicismi, andiamo sui dosaggi. Quest’anno ho assaggiato in Consorzio 104 Franciacorta Dosaggio Zero. Fino a pochi anni fa erano una manciata. Ce ne sono di ottimi, ma in alcuni casi si tratta della stessa base del Brut e non un prodotto pensato a sé. È una questione di stile, una nuova consapevolezza, una moda?
È la combinazione di due fattori. Abbiamo migliorato l’interpretazione tecnica, quindi otteniamo vini che hanno meno bisogno di zucchero per bilanciare eccessi di acidità o coprire note vegetali. Dall’altra, c’è un po’ movimento di mercato favorevole al dosaggio zero e comprensibilmente c’è una predisposizione ad assecondare questa tendenza, forse in alcuni casi senza poterselo permettere interamente. Non avendo problemi con l’acidità, sono convinto che la tipologia può dare grandi risultati, dobbiamo avere però solidità e consapevolezza dei nostri mezzi per andare oltre al dosaggio. Chi ha poca storia è più suscettibile alla moda e al mainstream.
Capitolo Pinot Nero. Tra gli assaggi spiccano diversi Blanc de Noirs e nelle cuvée sentiamo sempre più struttura e frutti rossi. Possiamo parlare di tendenza o cambio di rotta?
Come percentuale di pinot nero siamo sul 15% della superficie e penso che arriveremo al 20%. In passato si piantava poco perché la varietà – si sa – è poco costante e a dir poco capricciosa, il cruccio di ogni enologo. All’inizio è stato più semplice puntare sullo chardonnay. La crescita c’è, è una questione di clima ma anche di mercato, basta vedere la richiesta sui mercati internazionali dei nostri Rosé, parliamo di un incremento a tre cifre su molti Paesi.
Da tanto tempo non si respirava tanto entusiasmo nel settore: l’estero è ripartito a velocità doppia.
Sì, tantissime cantine della Franciacorta hanno finito il vino da vendere. L’ultimo quadrimestre è il migliore che mi sia mai capitato, meglio del 2018 o 2019. Non c’è vino sfuso sul mercato, non si trova nemmeno in bottiglia, il consumo di vini effervescenti è letteralmente esplosa. Anche per questo si sta spumantizzando ovunque. La ristorazione è partita bene, si sta bevendo tanto. Non so quanto potrà tenere ma i numeri parlano chiaro. Abbiamo superato i 20 milioni di bottiglie di Franciacorta vendute nel 2021: è un record.
Eppure, soprattutto in alcuni addetti al settore, c’è ancora uno scetticismo sul Franciacorta. Cosa rispondi a chi non beve Franciacorta per partito preso?
Credo sia dovuto a un mix di fattori. Gli americani invidiano chi ha successo e cercano d’imparare da loro. In Italia, non è così, se le cose vanno bene, sei antipatico. Da alcuni siamo ancora visti come gli industriali con i soldi, che hanno copiato la Francia e si sono messi a fare vino. Francamente, chi parla così non conosce veramente la Franciacorta. I bilanci vanno fatto sulla distanza, noi dobbiamo essere pazienti, dialogare con i mercati e crescere lentamente su basi solide. Siamo un territorio che ha potenzialità, abbiamo 60 anni e ora abbiamo raggiunto livelli importanti. L’unica risposta ai nostri detrattori è alzare l’asticella della qualità, lavorare sodo e continuare a fare meglio. E credo che lo stiamo facendo bene. E se superiamo i 20 milioni di bottiglie, evidentemente c’è qualcuno a cui piace avere un Franciacorta in tavola.
Dagli assaggi emergono cru particolarmente vocati, penso al Monte Orfano, che danni nel bicchiere caratteri distintivi. Eppure, si parla ancora poco di sottozone in Franciacorta e ancora molto di mesi sui lieviti e dosaggi. Come vi state muovendo?
Siamo indietro sul concetto di vigna o comune per un motivo molto semplice. Consapevoli di essere un territorio giovane, abbiamo lavorato prima di tutto sul concetto di territorio prima di arrivare ai comuni e alle singole vigne. Ora siamo alla fase successiva, per primavera chiuderemo la mappatura e digitalizzazione del catasto napoleonico, abbiamo informazioni vigna per vigna di cosa c’era e cosa si è piantato 200 anni fa, un lavoro prezioso voluto da Maurizio Zanella (ex presidente del Consorzio, ndr). Il cartografo Alessandro Masnaghetti ci ha lavorato sopra, con tutte le informazioni precise del 1809.
Cosa ne verrà fuori?
Sarà un aggiornamento del lavoro degli anni ’90, sarà una zonazione 3.0 perché non solo sarà una zonazione con maglie più strette, ma andremo ad aggiungere dati sul clima e sulla biodiversità. Il cappello della biodiversità è funzionale, ci lavoriamo dal 2014, e il lavoro non si concentrerà più solo sullo chardonnay, ma integrerà pinot nero, pinto bianco ed erbamat. Non sarà pronto domattina, ma sarà lunga. La prima bottiglia di Berlucchi ha 60 anni, la doc ne ha 50, il Consorzio 30. Non ci vuole l’ansia della cuvée dalla singola vigna a tutti costi, vanno fatti i lavori con calma, senza ansia da prestazione. Ora stiamo raccogliendo gli anni del lavoro passato: tutto al suo tempo.
A proposito di percorsi nuovi, la cuvée Animante di Barone Pizzini (Tre Bicchieri del Gambero Rosso) è il primo Franciacorta con una percentuale di erbamat. E a noi è piaciuto parecchio. Perché hai scommesso su questa varietà?
L’erbamat ha due aspetti nettamente positivi. Il primo è tecnico. È una varietà che ha le caratteristiche per andar ad apportare, nel taglio, freschezza ed eleganza. Ma l’aspetto che mi appassiona di più è la storia, l’idea di lavorare con un vitigno che era già presente sul territorio cinque secoli fa, lo vedo come un regalo che il vino fa al suo territorio di origine. A livello agronomico è un incubo, ma non ci arrendiamo. Stiamo lavorando con l’università di Milano per identificare i cloni. Si tratta di un percorso di studi agronomici che richiede decenni, per il momento abbiamo inserito l’erbamat nel disciplinare limitandolo al 10%. Oggi, dopo 10 anni, abbiamo delle informazioni agronomiche, sappiamo come trattarlo, abbiamo 5-6 anni di vino in bottiglia che sono ancora pochi. I risultati veri si vedranno tra 15/20 anni. Sono tanti, lo so, ma in questo mondo funziona così.
a cura di Lorenzo Ruggeri