Con un export lanciato verso quota 7 miliardi di euro e una crescita e un valore alla produzione pari a 9,2 miliardi di euro, il vino si è affermato nell’agroalimentare come un fuoriclasse, capace di imporsi sul mercato in termini di prezzo, riconoscibilità e valore aggiunto. Quali prodotti del food hanno saputo fare altrettanto? E quale potrebbe essere il “vino” del nuovo millennio, in termini di risultati? Ne abbiamo parlato con Francesco Minetti, che conosce molto bene entrambi i settori, in quanto ceo di Well Com, l’agenzia italiana di comunicazione food&wine con una trentennale esperienza di settore.
Seguiamo un processo hegeliano, mettendo subito in dubbio la nostra tesi: il mondo dell’agroalimentare ha davvero da imparare dal vino?
I dati a nostra disposizione dicono che il vino oggi pesa il 10% della produzione totale agricola come fatturato e il 20% come valore aggiunto. Quindi è inconfutabile che è il comparto in grado di creare surplus. E lo è perché è riuscito a passare dalla commodity - ovvero prodotto fungibile e perfettamente sostituibile - alla differenziazione. Pensiamo che, fino agli anni ’50, un litro di vino era semplicemente un litro di vino, che veniva per lo più dato come compenso in natura ai braccianti agricoli. Oggi il consumatore – anche quello meno informato - non chiede più un vino generico, ma chiede il vino di un vitigno, di un territorio, di una denominazione, addirittura di una menzione geografica aggiuntiva o di un marchio specifico.
Solo merito del prodotto o c’è di più?
Per capire il cambio di rotta dobbiamo tornare indietro nel tempo, agli anni ’80, quando c’è stata una spinta propulsiva, che risponde al nome di “scandalo del metanolo”. Da quel momento è iniziata la risalita. Paradossalmente, infatti, lo scandalo è stato un vero boost per la legislazione a tutela del consumatore con la proliferazione di denominazioni di origine, disciplinari di produzione rigidi, strumenti di verifica e controllo sempre più sofisticati. La legislazione è stata poi interpretata come una vera opportunità di marketing per legare il prodotto a un territorio, trovando degli asset differenzianti e non trasferibili, impossibili da riprodurre in ogni luogo.
Quindi ci vorrebbe uno “scandalo” anche per i prodotti del food per riuscire a raggiungere gli stessi traguardi del vino?
Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Basterebbe avere una legislazione più restrittiva. Pensiamo che se oggi del vino sappiamo tutto (denominazione, regione, vitigno, luogo di produzione, storia di chi lo produce), per un prodotto come l’olio, la legislazione permette di scrivere in etichetta, come elemento differenziante, “da olive italiane”. Mi pare evidente quanto siamo indietro anni luce!
E questo, va da sé, si evince anche dal prezzo …
Il vino è stato uno dei pochi settori in cui i produttori hanno osato chiedere e proporre un prezzo completamente disancorato dal costo di produzione: non un prezzo semplicemente agricolo, ma legato adun elemento intangibile che è la mano dell’uomo. È stato un atto di coraggio e consapevolezza che difficilmente si vede con altri prodotti. Vi immaginate una bottiglia di olio a oltre 50 euro?
Quindi, differenziazione e prezzo sono i punti di forza del settore vitivinicolo. Ma c’è altro per cui il vino può essere considerato un modello?
Direi la ricerca: sia quella agronomica sia quella enologica. Non ci sono altri prodotti così avanti per studi e dati su composizione del suolo e fasi vegetative, recupero di varietà dimenticate e genetica delle piante. Il livello è alto anche in cantina. Pensiamo ai contenitori: se negli anni ’90 il tema era legno grande o legno piccolo, oggi la ricerca si è di molto allargata fino ad arrivare, ad esempio, a recuperare la tradizione delle anfore. Sfido gli altri settori ad avere un dibattito così approfondito sui contenitori. Diciamo che a oggi questi temi sono in gran parte assenti dal dibattito del food mainstream.
Ma ci sono oggi dei prodotti agroalimentari diciamo più “virtuosi” rispetto ad altri?
Stanno lavorando bene sia il settore caseario – pensiamo a prodotti come Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Asiago - sia quello dei salumi, dal San Daniele al Prosciutto di Parma. Da tempo queste produzioni hanno iniziato a marcare le differenze di zona di produzione, di filiera e di affinamento trainato da denominazioni di origine forti e qualificanti. Quel che manca è l’approccio al mercato, che di solito viene demandato al Consorzio, senza la volontà di affermare brand aziendali, così come invece fa il vino. Certo il cooperativismo fa un pezzo della strada, ma non può fare l’ultimo miglio.
Anche il settore della trasformazione dei cereali in farine e pasta ha fatto molto: qui la riscoperta di varietà antiche e un forte legame con la ristorazione di qualità ha portato l’attenzione su aspetti differenzianti. Pensiamo che oggi in tanti non comprerebbero più farine raffinate senza interrogarsi sulle alternative disponibili.
Guardando avanti: quale potrebbe essere il prodotto agroalimentare da cui aspettarci grandi novità nel prossimo futuro?
Scommetterei sul settore dei coloniali: cioccolato e caffè che all’inizio furono senz’ombra di dubbio pure commodity. Qui va sottolineato il grande lavoro di tracciabilità di filiera che si sta portando avanti, che porta per esempio al fenomeno dei monorigine. Il risultato è che nelle grandi città stanno nascendo sempre più microtorrefazioni e luoghi dove degustare diverse tipologie di caffè. Certo siamo ancora all’anno zero: al momento non c’è l’abitudine di chiedere al banco del bar la tipologia di caffè desiderata, il blend, la tostatura, l’estrazione. Ma se ci pensiamo è la stessa cosa che 50 anni fa succedeva con il vino, quando chiedevamo semplicemente un bianco o un rosso.
Tra i prodotti che stanno crescendo di più negli ultimi anni c’è, poi, la birra. Basti pensare alle tante micro-brevery che nascono in tutto il territorio nazionale…
Senz’altro il settore ha fatto tanti passi in avanti, nonostante in Italia non siamo dei grandi bevitori di birra. Probabilmente si tratta del comparto che più di tutti sta prendendo spunto dal mondo del vino. Ma qui è curioso che manca un elemento fondamentale che è la legislazione, tant’è che sono molteplici gli esempi di fake legati al territorio, lì dove la territorialità la si vede solo nel nome. Un fenomeno per cui nel vino si rischierebbero serie conseguenze giuridiche.
Fin qua, però, abbiamo dato per scontato che il vino sia l’esempio da seguire. Eppure, c’è un elemento di cui bisogna tener conto: tranne casi particolari di cui sopra (birra, caffè, cioccolata) e al contrario del vino, i prodotti agroalimentare sono beni di prima necessità e non commodity…
Era vero un tempo: per un milione e mezzo di anni si è mangiato per un bisogno fisiologico, secondo la piramide di Maslow, ma a poco a poco si è passati da un consumo alimentare a uno edonistico, che poi si è trasformato in culturale. Adesso, però, le cose stanno cambiando nuovamente. Viviamo in mondo di grande sovrapproduzione e concorrenza. Inoltre, più si andrà avanti, più il nostro fabbisogno calorico diminuirà progressivamente, visto che ci muoveremo sempre meno e i lavori pesanti saranno sempre più eseguiti da macchine e intelligenze artificiali.
Quindi si mangerà sempre meno?
Una cosa è certa: il nostro corpo avrà bisogno di meno cibo. E questo ci porterà nel prossimo futuro verso un altro tipo di consumo, che definirei nutrizionale, aprendo la frontiera a due gruppi polarizzati: da una parte i cosiddetti disinteressati, dall’altro i feticisti. I primi rinunceranno sempre più ai cibi cotti, per fare ricorso agli integratori (i cosiddetti nutraceuticals).
I feticisti (di cui faccio parte) svilupperanno un’ammirazione quasi fanatica ed esclusiva verso il prodotto alimentare o il produttore. Saranno molto più esigenti rispetto alla tracciabilità lungo tutto la filiera, vorranno sapere tutto di ciò che mangiano, visto che mangeranno molto meno. In questo mondo futuribile, i nuovi guru saranno i contadini (come fino ad ora lo sono stati gli chef) e il cibo non sarà più una necessità, ma sarà a tutti gli effetti un bene di lusso. Come già oggi lo è il vino. Con la differenza che quest’ultimo ha già superato la sfida, il food ha ancora tanto da scrivere.
a cura di Loredana Sottile