Non si fa certo spaventare dal lardo soffritto in olio, o da intingoli in cui unisce quantità «generose» di burro, per poi mangiarsele con goduria alla fine della preparazione. La carne è spesso protagonista dei suoi piatti. Ma quando si dice Giorgione – al secolo Barchiesi Giorgio – non si pensa certo alla carne coltivata. Da 12 anni scorrazza sul Gambero Rosso Channel dove ha dato vita a una settantina di serie televisive per oltre 400 video, da una decina di anni pubblica libri e firma copie in gallerie strapiene di fan, ha pubblicato con il Gambero almeno cinque libri di ricette di vario genere (sempre laide e corrotte). E il re delle anatre, dei cosciotti di castrato, delle braciolette di abbacchio, del cinghiale alle visciole, del lampredotto alla sua maniera e addirittura del kebab (il “kegiorg”) ammette che cucinerebbe anche la carne coltivata. E si dice contrariato dalla scelta del governo Meloni di vietarne la produzione e la commercializzazione in Italia. «Ma se un sistema di produzione alimentare può aiutare a risolvere la quantità di cibo che serve oggi al mondo ma perché dobbiamo demonizzarlo? Io non faccio», dice infastidito.
Nelle sue ricette possono entrare anche grilli, cavallette e lucertole. «Sono stato in Africa e ho provato delle cose che non rimangerei, ma altre invece non erano così disdicevoli». È tutta una questione di cultura. Alcune cose ci fanno «schifo» solo perché viviamo a una certa latitudine, viceversa mangiamo alimenti che altri paesi non apprezzano. «Mangiamo le lumache, e in altri paesi fanno schifo. Mangiamo le rane, e in altri paesi fanno schifo. Per anni abbiamo cucinato il ghiro, il riccio, il porcellino d’India. In tempo di guerra i nostri nonni si sono mangiati pure le zoccole (i topi, ndr). E non mi sembrano delle eccellenze italiane!». Ride: «O forse sì».
Il filetto di ippopotamo
«Nei miei viaggi ho assaggiato anche i serpenti». Com’erano? «Buonissimi». Altri animali “strani” che ha mangiato? «L’ippopotamo». E? «Non lo rimangerei». Insomma, il Vangelo secondo Giorgione dice che non possiamo demonizzare la carne coltivata solo partendo da un pregiudizio culturale e gastronomico. «Non mi piacciono i diktat, non mi piacciono le obbligazioni dall’alto senza un motivo che sia valido e non semplicemente politico. Il Governo Meloni e il ministro Francesco Lollobrigida lo fanno per tutta una serie di motivi che non hanno niente a che fare con le ragioni per cui la carne coltivata viene prodotta. Non è vero che fa male o che è sintetica». Così come non possiamo nascondendoci dietro al mantra del made in Italy, sostenendo che la carne sviluppata da colture di cellule animali può essere un pericolo per la produzione di carne italiana. «Chi potenzialmente mangerebbe la carne coltivata magari sono persone che non possono permettersi una bistecca».
Onere (e onore) di insegnare
Giorgione crede caparbiamente in un metodo molto semplice: insegnare al consumatore a scegliere cosa comprare e cosa mangiare. E come, ma senza troppi vincoli. «Vogliamo parlare dell’olio? C’è quello Ue e quello non Ue. Io il secondo non lo compro, però lo fanno. E c’è gente che lo compra. Allora se c’è un olio che costa 3 euro a litro, e diciamo ai consumatori che 3 euro non è un costo accettabile per un olio buono, poi saranno loro a decidere cosa fare».
In Italia spesso la tradizione sembra intoccabile. Lo storico Luca Cesari, in un video pubblicato dal Gambero Rosso, ha preparato la ricetta della Carbonara 1954 (come riportata dalla Cucina Italiana dell’epoca) con gruviera e aglio. È stato ricoperto di insulti e minacce di morte. «Che palle, non è accettabile. I piatti si preparavano anche con quello che c’era. Non devono esserci diktat. Io avevo la tata del frusinate che preparava l’amatriciana con la cipolla. Io ci sono cresciuto con l’amatriciana con la cipolla e la trovo buonissima. Non ti piace? Non ce la mettere. Non ti sta bene? Affari tuoi».
Allergico agli imperativi
A Giorgione si sa gli imperativi non piacciono. Di nessun tipo. Figuriamoci quelli che riguardano il cibo. Negli ultimi vent’anni «abbiamo avuto la maledizione delle diete, la maledizione dei nutrizionisti sbagliati, la maledizione delle restrizioni gastronomiche». Sbatte i pugni sul tavolo, avanza come un fiume in piena: «Vai in farmacia e trovi venti metri di integratori: hai sudato? Prendi questo. Sei depresso? Prendi quest’altro. Hai fatto la corsetta? Prendi quello. Io dico: figlio mio magna tutto, non ti serve niente». La dieta è una pausa di riflessione tra un pasto e l’altro, lo ripete spesso durante le sue trasmissioni. «...I bambini crescono con le merendine a 70 euro al kg piene d’alcol».
Mentre lo dice il sopracciglio si inarca, sotto i baffi una lieve smorfia. Il volto lascia tradire un certo nervosismo, ma quando d'improvviso batte di nuovo i palmi delle mani sul tavolo non si può far a meno di sobbalzare: «Ormai i genitori non hanno nemmeno più il tempo di prendere un pezzo di pane e "straccagnacce" un pomodoro sopra», quasi urla, ma l'ennesimo termine del dizionario giorgioniano rende tutto più lieve, e in battibaleno eccolo là che sorride.
Al ristorante con Giorgione
Nei suoi ristoranti di Montefalco e Grutti mangi quello che dice lui. Ed è così da decenni. Se non ti piace, ti alzi e te ne vai. Capita che tra i clienti ci siano genitori più pignoli, che dichiarano che i figli non mangiano nulla, che pretendono menu speciali per i loro pargoli dal palato difficile. Giorgione gira per i tavoli con la sua solita salopette di jeans, maglione, balba lunga e un po’ incolta. Saluta, risaluta, pacche sulle spalle, foto, una parola allegra e poi un’altra ancora. Elenca ai commensali il menu del giorno.
Negli anni del successo non sono mancante anche polemiche e condanne: puristi e cultori del politically correct del cibo si sono scagliati utilizzando i social. Le accuse: Giorgione insegna pratiche anti-salutiste e travia i food lovers. Porta innocenti mangiatori sulla strada del non ritorno da grasso, trigliceridi, food porn. Hanno paragonato la sua cucina addirittura a quella dei Mcdonald's. Giorgione è colpevole di proporre ricette laide e corrotte.
"Grasso è nobile"
Lui sorride di fronte alle accuse. «Uso grassi nobili. Mentre Mcdonald's no». Non è un demonizzatore di grassi, è vero, ma non invita a usare solo quelli. «Perché se vedi quello che io cucino c’è tutto». Ci sono ricette con una dose generosa di burro, di strutto, di olio, «ma ci sono ricette che prevedono anche altro. Io cucino tutto, dal grasso al magro».
Sui social è una star. Ma il caso Ferragni-Balocco lo ha seguito? Che ne pensa? «Se tu fai la beneficenza non lo dici, non lo sbandieri, non lo dici a nessuno. La fai perché ti pare giusto farlo, non per dirlo». Non è interessato alla retorica «cerca like». Si mostra per quello che è, personaggio sopra le righe, una miscela esplosiva. «La condivisione, intesa come contenuto social, non mi riguarda». Innegabile però la crescita degli ultimi anni: sui social Giorgione è ormai esploso, conta quasi un milione e mezzo di followers. Dalla tv alle piattaforme come Instagram e Facebook il passo è stato breve. Il suo target si è allargato. I giovanissimi lo fermano per strada per farsi una foto con lui. Lo seguono e lo imitano. «È una cosa diventata molto inquietante».
Il tatuaggio sul sedere
Ragazzi e ragazze di «12, 13, 15 anni» lo venerano e gli scrivono. I fan di Giorgione, i nonnullatori, gli allegri smucinatori. «Fanno cose folli. E mi arrabbio!». Cioè? «Meglio che non lo dica, mi fanno proprio arrabbiare». Ci pensa tu un attimo. «Aspetta». Prende lo smartphone e con il ditone inizia a sfogliare la cartella fotografica. Ci mette un po’ e poi la trova. Scuote la testa e mostra l’immagine impressa sullo schermo: «C’è una persona che si è tatuato sulla sua chiappa la mia faccia, un altro sulla coscia. Ma ti rendi conto?». Che cosa le ha detto quando lo ha visto? «Mi ha chiesto se mi piacesse». Beh, cosa ha risposto? Sbatte le mani sul tavolo e urla: «Non mi piace, gli ho detto». E poi ride. «E che altro dovevo dirgli?».
Il Giorgione imprenditore di sé stesso non è da solo a portare avanti le due attività ristorative. C’è sua moglie Marianna e ci sono i suoi figli Giuseppe, Michele e Maria. «Tutti e quattro hanno un ruolo in questo progetto». Certo, il lavoro porta via molto tempo, ma «la domenica sera cerchiamo di vederci tutti quanti insieme a cena. Lo facciamo con piacere. E ci sentiamo tutti i giorni». E poi arriva una frase un po’ amara: «Ho 66 anni, se non c’è il cambio generazionale questo gioco si perde».
L'incubo della burocrazia
Avere un ristorante non è per niente facile. La ristorazione è spesso un atto eroico, specialmente in un paese come l’Italia. «Le procedure sono veramente vecchie. La burocrazia blocca tutto, e dirlo non è solo un atto di retorica, è proprio così. A me è capitato». E poi pensa ai giovani che vogliono intraprendere questa strada: «Il giovane ingenuo che ha il commercialista che non capisce niente fa le cose da nomenclatura e magari può incappare in errori. I corsi per il primo soccorso, gli aggiornamenti annuali, l’antincendio, l’Haccp e i corsi su tutte le lettere dell’alfabeto. Ma non è normale. Sono delle procedure che seguono una follia neurotica».
Bullismo in cucina
C’è anche il problema degli abusi e del bullismo in cucina. Molti cuochi e camerieri continuano a subire vessazioni nei ristoranti, contratti che non ricalcano le loro mansioni, maltrattamenti psicologici. Lo chef e giudice di Masterchef Giorgio Locatelli, durante una puntata della trasmissione, ha detto che i tempi sono cambiati e che maltrattamenti non avvengono più. Non ci pensa neanche qualche secondo, non finisce neppure di ascoltare la domanda e dice: «Mentire sapendo di mentire è peggio che mentire non sapendo. Ti posso garantire che ho conosciuto ragazzi che sono stati costretti a restituire fuori busta 13esima e 14esima, che hanno dovuto lavorare in nero, datori di lavoro che fregano le mance, cuochi e camerieri che hanno subìto del bullismo». Se non è maltrattamento questo, cosa lo è?
Quello che si vede a Masterchef non ricalca esattamente quello che avviene nelle cucine di tutto il Paese. E il suo effetto positivo sulle scuole alberghiere sembra finito. Le iscrizioni sono in caduta libera, continua la riduzione drastica degli iscritti. «Gli alberghieri fanno paura. Mi è capitato di farci lezione. Andare oggi in una scuola alberghiera vuol dire andare nella peggiore scuola possibile. I prodotti spesso sono di scarsissima qualità. Come l’olio, da agitare prima dell’uso. Così si dà ai ragazzi un’immagine sbagliata della cucina. Non gli stai insegnando niente, anzi li stai depistando».
Amore per l'Umbria
L’Umbria è la regione che lo ha accolto. Un territorio di passaggio con una cucina spesso “meticcia” con incursioni laziali, marchigiane, addirittura abruzzesi. Ma la sua ristorazione fine dining negli ultimi anni è cresciuta tantissimo. Sia il Gambero Rosso sia la guida Michelin lo hanno certificato tra forchette e stelle. «I cambiamenti ci sono stati, sono innegabili, i grandi vecchi come Vissani stanno scomparendo». Giorgione ha provato ad aiutare i giovani del suo territorio. «Conosco molto bene Giulio Gigli del Ristorante Une (nuova stella Michelin, ndr). È cresciuto dentro casa mia, è amico di mio figlio». Si vede che ci tiene, lo si capisce dalla forza con cui riprende a battere il palmo destro sul tavolo: «L’ho bastonato all’inizio, gli dicevo “vattene, vai a vedere come funziona il mondo e poi torna”. E così ha fatto ed è riuscito ad arrivare a un certo livello».
Ma lei oltre alla cucina che fa? «Vivo in campagna, è il mio hobby, con tutto quello che ne consegue: gli animali, le piante, il giardino. Leggo molto, ho una bella biblioteca a casa, posso spaziare. Certamente non vedo la televisione». Percorre 110mila km all’anno. Su e giù per l’Italia. Ma cerca di stare molto spesso in Umbria dove si trovano i suoi due ristoranti: Alla Via di Mezzo a Montefalco e Villa Selva a Grutti. «Su e giù due volte al giorno». Faticoso? «Molto, ma ci tengo a parlare con i miei clienti».
Ha iniziato un paio di decenni fa. «A casa, vivendo in campagna, organizzavo pranzi o cene con 300 persone, dove cucinavamo per tutta la notte». E in una di queste cene ha incontrato due ragazzi che avevano aperto un ristorante a Torre del Colle, piccola frazione del comune di Bevagna, che in seguito hanno ceduto. Un borghetto medievale meraviglioso. Quel ristorante diventerà la prima sede della Via di Mezzo. «Eravamo io, mia moglie e una nostra amica. Ci siamo messi a spadellare».
Giorgione, la tv e il Gambero
Oltre sessanta coperti e un menu fisso. Giorgione da solo in sala a servire tutti, bofonchiando e urlando. «Ci siamo inventati solo quello che sapevamo già fare». Il grande antipasto a buffet, che anche oggi è quello per cui vale il viaggio, una selezione straordinaria di salumi e formaggi da tutta Italia. Due primi, due secondi, due contorni, i dolci. Se riesci ad alzarti da tavola indenne sei un eroe. Allora il menu costava 15 euro bevande escluse. Dopo cinque anni a Bevagna, era tempo di cambiare sede. Si è trasferito a Montefalco, dove si trova ancora oggi. Poi dopo alcuni anni è arrivato il secondo. Ma sempre in Umbria.
E il Gambero Rosso? «Ho incontrati alcune persone del Gambero per la prima volta nel ristorante di Bevagna. Vennero a mangiare, e dopo la cena si qualificarono come giornalisti. All’epoca cercavano volti nuovi e successivamente mi contattarono per la tv. Ricordo che il regista mi disse “cosa vuoi fare”? Vieni a casa mia, gli risposti». «Buona la prima, niente tagli durante le puntate. Se non va bene si ricomincia d’accapo». Come questa intervista. Lo apre un altro ristorante? «Manco sotto tortura».