Basta con la cucina delle nonne: se c'è un'origine della cucina italiana, o meglio del mito della cucina italiana, è la tv. La televisione è la mamma della nostra cucina, è la tv che ha costruito l'immaginario collettivo di una Repubblica fondata sul ragù (e su tutti gli altri sughi, s'intende). Lo dice senza mezzi termini Alberto Grandi. Proprio lui, il famigerato professor Grandi che tanti mal di pancia ha fatto venire agli integralisti della cucina italiana quando ha smontato il dossier della candidatura della cucina italiana come Patrimonio Immateriale dell’Umanità Unesco. Lo ha fatto allora, suscitando l'indignazione di tanti che su quel mito (inventato, come gran parte dei miti, del resto) pensano di pesare il proprio valore e una presunta supremazia sugli altri. E continua a farlo anche nella sua ultima fatica editoriale, firmata a quattro mani con Daniele Soffiati (coautore anche del podcast DOI, Di Origine Inventata) in cui si mette a segno un'ulteriore tappa nell'opera di smantellamento di falsi storici.
Il libro di Alberto Grandi e Daniele Soffiati
Il libro si intitola La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici e affronta con un punto di vista geografico le molte leggende metropolitane che accompagnano il mondo del cibo. Che si intende per geografico? «Il libro invece che essere diviso in capitoli merceologici, cioè per prodotti, come avevamo pensato all'inizio, è organizzato per aree geografiche: la parte prima, per esempio, si intitola La Cucina Italiana è americana, la seconda La Cucina Italiana è francese, tedesca, austriaca giapponese».
Detta così pare una provocazione, in realtà segue le tracce della nostra cucina oltre confine: «pensa al wurstel, ormai è un ingrediente base nella pizza e nell'insalata di riso, gli italiani sono i secondi consumatori di wurstel dopo i tedeschi e la Campania è la regione in cui se ne mangiano di più in Italia, oppure vedi la pappa con il pomodoro: anche la salsa è americana, anzi è americana alla seconda, altro che piatto tipico italiano! Così c'è un capitolo che si intitola: Conclusioni: ovvero abbasso la pappa con il pomodoro». Nel libro non mancano approfondimenti storici, che rimettono nella giusta prospettiva dei personaggi a cui per qualche motivo sono tributati meriti gastronomici, «come nel caso di Isabella d'Este cui attribuiamo la nascita dei tortelli di zucca, quando ai suoi tempi la zucca non c'era neanche in Europa», o di Caterina de' Medici che si dice abbia fatto conoscere le ricette italiane in Francia, «invece con lei non è andato neanche un cuoco, neanche un lavapiatti». Però è stata in un certo un'emigrata d'alto borgo, e Grandi all'emigrazione attribuisce un ruolo fondamentale come vettore della nostra gastronomia, in termini di prodotti, di gusto e di narrazione: se alla tv si deve la costruzione del mito della cucina italiana, l'emigrazione ne è stata la cassa di risonanza.
La tv e le balle di Mario Soldati
Ma quale è stato il ruolo della tv? «Carosello ha orientato i consumi, spingendo all'acquisto di prodotti nuovi, raccontava una storia. E poi c'è stato Mario Soldati con Viaggio nella Valle del Po: ha detto un sacco di balle che non stanno né in cielo né in terra». Sa che questo farà arrabbiare più di una persone, vero? «Lo so, e pensa che c'è anche passaggio su Pasolini, uomo di destra». Ne è sicuro? «Sì, sì, del resto anche il presidente Meloni, come vuole essere chiamata, l'ha messo nel suo pantheon. In questo libro c'è solo un accenno, non infierisco molto, ma nel prossimo che parla di come la tv ha plasmato il gusto degli italiani ci sarà un lungo pezzo su di lui e su Calvino... Ma per tornare alla cucina, il merito va alla tv».
Ma la tv si è sviluppata in tutto l'occidente più o meno allo stesso modo e nello stesso momento, anche con programmi di cucina storici, perché solo in Italia si è creato questo mito? «Perché l'Italia è un Paese in crisi identitaria, ammesso che abbia mai saputo chi è, non a caso il Guardian dice che ci è rimasto solo il cibo e il calcio... ma il calcio non va così bene. Le cose dette da Soldati o Veronelli, cose come il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale, o tutta quella retorica dei bei tempi andati, rimangono lì». E non sono vere? «Ma quando mai? C'è un capitolo che si intitola: Le vostre nonne cucinavano male. A sentire i cuochi sono tutti nipoti della Klugmann, ma è possibile?». Allora non è vero che prima si mangiava meglio? «Ma no, era una cucina squilibrata, in cui mancavano molte cose, oggi è molto più varia e controllata, i mercati si sono integrati, mangiamo cose che i nostri nonni non conoscevano e lo sviluppo tecnologico ha portato grandi miglioramenti. Nelle case si cucinava con la sugna, altro che olio di oliva, quello costava troppo».
La dieta mediterranea non è mai esistita
E la dieta mediterranea? «Ci abbiamo dedicato un capitolo abbastanza forte». Del resto il libro nasce come evoluzione di Doi, frutto delle riflessioni nate in seno al podcast anche grazie agli ospiti intervenuti, «continuo a pensare che la puntata più bella sia quella sulla dieta mediterranea, e Vito Teti e John Dickie sono stati gli ospiti più preziosi, hanno detto che nessuno ha mai mangiato seguendo la dieta mediterranea». Insomma è un'invenzione? «Il vero contributo di Ancel Keys, è stato studiare l'alimentazione di una popolazione povera e affamata, che non aveva nulla a che fare con la dieta mediterranea».
Professore, non ci sfati anche i miti dei grandi prodotti nostrani però, delle nostre Dop, «non mettiamo in discussione la qualità, non ho competenze e non mi interessa: amo la cucina e i prodotti italiani, ma non sono un marchio o una certificazione che li rendono buoni. Il mio ragionamento è: se metti il cavallino rampante su una Panda non diventa mica una Ferrari». Neanche il gambero di Mazara del Vallo? «Non mi far parlare». Sulle ricette, poi, il discorso si fa ancora più sottile: «Quello che si sta tentando di fare spero con scarso successo è musealizzare la cucina: vogliono mettere il nostro paese e la sua cucina in un museo, nel museo ci sono cose morte non cose vive. La nostra cucina è in divenire e ha fatto della capacità di evolvere l'elemento caratterizzante. La carbonara fra 10 anni non sarà quella che mangiamo oggi, potrebbe essere fatta con la carne coltivata». Questo è un altro tema scottante: quale è la sua posizione in merito? «Sono stato in audizione in Senato, e l'ho detto lì: cercare, studiare, capire è meglio che vietare. Al momento non c'è motivo di dire di no né di sì, perché una cosa che non si conosce. Si deve fare ricerca. Ne ho parlato anche in Storia delle nostra paure». Se ci aggiungiamo la sua posizione sull'iniziativa del Ministro Lollobrigada, quando voleva organizzare una task force per controllasse la cucina italiana all'estero, il quadro è completo.
Professor Grandi, così sembra proprio che lei non creda nella cucina italiana. Eppure è un vettore economico importante: «Credo che turismo e agroalimentare possano rappresentare voci importanti dell'economia, ma l'idea che questo paese possa campare di turismo e ristoranti questo no: solo il 10% del nostro Pil è legato al turismo, sono più interessato al restante 90%. Tutte cose che un paese sviluppato ha e che noi stiamo perdendo senza dispiacere, mentre se si perde una caciotta apriti cielo. Ma cosa ce ne facciamo di ingegneri se il nostro futuro è fatto solo di ristoranti e agricoltura? L'Italia è un paese industriale e moderno che ha la sua base in questi settori, poi è anche un paese bello dove si sta bene e si mangia bene, e dove c'è turismo, ma il turismo ha un costo ambientale, quello con numeri bassi o di elite è l'unico che non impatta, ma non conviene mica»