Figlia della riscoperta degli autoctoni e della ricerca di eleganza e leggerezza, la Vernaccia di San Gimignano è un vino ancora da scoprire nel mezzo della Toscana più turistica. Nel mensile di aprile del Gambero Rosso abbiamo gli dedicato uno speciale. Qui un assaggio.
Stavolta nella cartolina ci siamo finiti dentro. Nella Toscana che ammalia e fa sognare, che cinge tra le sue mura ataviche e conserva, intatto nei secoli, un fascino che altrove si è perso e nella maggior parte del mondo non si è mai palesato. San Gimignano è oggettivamente un borgo incantato. Case e chiese che trasudano storia, vigilate dalle inconfondibili torri (un tempo più di settanta) che dominano dall’alto la Val d’Elsa e le sue anime erranti, la via Francigena e i campi di grano, i boschi e gli oliveti, l’eccellenza dello zafferano. E un vino bianco identitario, leggendario, che si è elevato a emblema e specchio della città.
La prima Doc italiana
“Nessun vino italiano può vantare una storia lunga secoli come la Vernaccia di San Gimignano”, si legge sulle pagine del Consorzio di Tutela. E non è un’affermazione di vanità: già alla fine del Duecento figura sulle mense dei re, dei papi, dei ricchi di mezza Europa. Lucente, giallo paglierino con riflessi dorati che si accentuano invecchiando, ha naso delicato ma perentorio, sentori minerali che col tempo s’impongono sui fiori e i frutti dell’età giovanile. Non a caso è un bianco di cui si produce la tipologia riserva: godibile da fresco, stupisce nella longevità.
Alla corte dei Medici raggiunge l’apice
Ha attraversato le epoche e la letteratura, da Cecco Angiolieri a Dante, da Boccaccio a Geoffrey Chaucer, si è diffuso in varie zone della penisola (probabilmente il nome deriva da Vernazza, luogo d’imbarco della produzione ligure) ma è a San Gimignano che trova il suo centro. Alla corte dei Medici raggiunge l’apice, decantato da Michelangelo e dipinto dal Vasari negli affreschi di Palazzo Vecchio a Firenze, citato da Francis Scott nei mitici pellegrinaggi del grand tour. Una miniera d’oro. In quella splendida cartolina. Un paio di secoli dopo è pressoché estinto, confuso e mischiato ad altre varietà.
Il recupero nel 1966
Il recupero avviene soltanto nel secolo scorso: nel 1966 è il primo vino italiano a ottenere la Doc, nel 1972 nasce il Consorzio, nel 1993 si ottiene la Docg. La storia recente la scrive chi ogni giorno lo custodisce, lo preserva, lo affianca e lo ascolta per interpretarlo, in quella che negli ultimi anni si può definire rinascita di una rinascita.
Cesani, da Ascoli a San Gimignano
“Guardando il mondo da quassù, è come ripercorrere la nostra affermazione nel territorio. Ma sarebbe meglio dire la riconquista della vita”. Letizia Cesani qui c’è nata, ma sembra ieri che i nonni mezzadri partirono da Castignano, Ascoli Piceno, e approdarono a San Gimignano quando gli indigeni fuggivano verso le città. “È sempre stata una terra di passaggio, dai pellegrini al turismo frenetico di oggi. Ma quella fu la prima migrazione importante del secolo, appannaggio di molte famiglie marchigiane che tentavano di affrancarsi dalla povertà”. La maglia fitta, ovvero il territorio frammentato in piccoli appezzamenti, è la testimonianza delle tappe con cui si ricostruirono una sussistenza. E una dignità. “Pancole, la zona in cui ci siamo stabiliti, era tra le più promiscue sotto il profilo agricolo, e ciò rispondeva alla necessità di quel tempo: l’autosufficienza prima di tutto”.
La storia di Cesani
Fu il padre Vincenzo Cesani, che dà il nome all’azienda, a puntare con più decisione sulla viticultura. “All’inizio degli anni Settanta crebbe la produzione di uve rosse”, poiché siamo anche nella DOCG Chianti Colli Senesi, “e di Vernaccia, l’anima di questa terra, ma per giungere alle prime bottiglie dobbiamo attendere gli Ottanta. E dai Novanta in poi, non si è fermata la ricerca per puntare sulla qualità”.
Il segreto? Puntare su sapidità e mineralità
Letizia ci aveva pensato, a smarcarsi dall’agricoltura. Studiò economia e commercio, lavorò come responsabile amministrativa in tutt’altro settore. “Ma la radice mi ha richiamata alla terra, nella quale mi sono tuffata con anima e corpo: ho arricciato le maniche, infilato gli stivali e via”. Vi porta innovazione e idee forti, come l’abolizione del legno nell’affinamento dei bianchi, mentre Vincenzo è la memoria storica, conosce ogni peculiarità di questi terreni che furono marini, ricchi di minerali e fossili. “La Vernaccia si spaccia per varietà poco aromatica, poco acida, caratteristiche ancor più difficili in questa sottozona arida” dice Letizia, tra l’altro al terzo mandato come presidente del Consorzio. “Ma se puntiamo sul suo carattere, su sapidità e mineralità, otteniamo sorprese che smentiscono i luoghi comuni”.
Molti i prodotti interessanti dai 31 ettari aziendali (25 a vigneto e quindi olio, zafferano), ma per restare in tema citiamo il Sanice Riserva 2015, premiato coi Tre Bicchieri, “da un vigneto immerso nel bosco, vendemmia ritardata poi dodici mesi sulle fecce fini e ben trenta prima della commercializzazione: il tempo è sempre fondamentale”, nonché il Clamys, “da un unico vigneto a cordone speronato alto, a doppia posta, su un blocco d’argilla che trattiene l’umidità ed esalta la salinità, autorizzandoci a parlare di trama marina”. Tra i nuovi progetti, il rosso Cèllori che diverrà merlot in purezza, a dimostrare la tipicità che raggiunge su certi suoli.
Il tour tra i produttori del Vernaccia di San Gimignano continua nel mensile di aprile del Gambero Rosso.
a cura di Emiliano Gucci
QUESTO È NULLA...
Nel numero di aprile del Gambero Rosso, in questi giorni in edicola, trovate il tour completo con i contributi di: Giuseppe e Alessandro Passoni (Mormoraia), Enrico Teruzzi e Carmen Puthod (Teruzzi), Luano Niccolai (Panizzi), Flavia Del Seta e Francesco Galgani (Cappella Sant’Andrea), Giampiero, Stefano e Alessio Logi (Il Colombaio), Elisabetta Fagiuoli (Montenidoli). Un servizio di 10 pagine che include anche le migliori etichette per Vini d'Italia 2019, le tavole suggerite dai vigneron e gli abbinamenti perfetti.
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