In Nepal si va per tanti motivi che ne fanno un'intrigante meta emozionale: lo splendore dell'Himalaya, il fascino di città Patrimonio dell’Umanità, il richiamo dell’avventura in montagna, l’aura mistica dei templi buddisti e induisti. Tra questi motivi, però, non figura mai la cucina. Ed è un errore. Nel mensile di marzo del Gambero Rosso siamo andati alla scoperta della cucina di montagna più estrema che c'è. Qui un'anticipazione.
L’identità gastronomica del Nepal
L’identità gastronomica del Nepal è un mix di influenze provenienti dai suoi ingombranti vicini. Insomma un calembour culinario tra Cina, India e Tibet. La grandissima varietà di gruppi etnici (circa 125) e la rigida divisione in caste (ufficialmente abolita nel 1962, ma di fatto presente eccome) hanno però impedito una reale codificazione della cucina nepalese e lo sviluppo di tradizioni condivise in tutto il paese.
Chi parte per il Nepal – per esempio per fare l’Annapurna Base Trek, circuito di trekking che arriva al campo base dell’Annapurna, una delle vette da ottomila metri della catena himalayana – si appoggia ad agenzie che organizzano piccole escursioni (un esempio? La Ticino Treks, molto valida) e che non danno alcuna importanza al cibo in sé: sulle montagne si mangia per avere energia e una volta tornati in città la voglia di tornare a sapori occidentali è più prepotente di quella di sperimentare. Per chi ne abbia la voglia però è possibile attraverso la mediazione delle guide avvicinarsi alla quotidianità dei nepalesi e ad avere un assaggio delle loro tradizioni. L’esperienza è molto profonda, non da meno degli altri aspetti del viaggio.
Mangiare in Nepal: non un paese per carnivori
L’80% della popolazione nepalese è induista, il 10% buddista. I due credo religiosi pro-vegetarianesimo hanno impedito che nel corso dei secoli si sviluppasse mai un vero e proprio sistema di allevamento di animali allo scopo di produrre carne. Pochi ristoranti tradizionali qui servono carne: se polli e bufali d’acqua sono locali, manzo e maiale vengono invece importati dall’India. E la carne di yak è una mezza leggenda. Il formaggio di yak invece si trova spesso, ma a prezzi inaccessibili alla popolazione locale: dai 10 ai 20 euro al chilo. Viene molto utilizzato il burro di yak, spalmato sul pane oppure salato e sciolto nel tè, una bevanda ultra-energetica che farebbe la gioia dei seguaci della dieta chetogenica.
Le diverse coltivazioni in Nepal
L’agricoltura costituisce ancora il 60% del PIL qui: in primis c’è la coltivazione di riso, subito seguita da quella di mais e frumento che vengono utilizzati per impastare il pane fritto e il chapati. In terza posizione il grano saraceno, usato soprattutto per la polenta, e il miglio, protagonista della tongba, la popolarissima “birra calda”: una grande tazza di latta viene riempita di miglio fermentato, su cui viene versata acqua bollente; il risultato è una bevanda dolciastra, dal retrogusto acidulo, che si sorseggia per ore e ore con la cannuccia.
Il re degli yogurt
Impossibile non citare il prodotto caseario più famoso del paese: il Juju Dhau, ovvero “il re degli yogurt” che si trova solo tra le mura della città di Bhaktapur. Ha un sapore dolce e una consistenza densa e cremosa, viene prodotto dal latte di bufala e servito in ciotole di ceramica rossa. I nepalesi lo consumano soprattutto in occasione di festività e celebrazioni religiose, ma i ristoranti turistici ormai lo propongono tutto l’anno.
Sulla tavola nepalese: dal bhat
Il Nepal è una repubblica fondata sul dal bhat. I nepalesi lo mangiano a pranzo e cena, lo ordinano al ristorante, lo rendono protagonista delle loro barzellette. Su un vassoio di metallo (jharke tal) viene scodellata una notevole quantità di riso, affiancato da achar (sottaceti quali zenzero, peperoncino, rafano), verdure cotte come il Palak Saag Sadheko (spinaci speziati) e tre ciotoline contenenti una cagliata di latte, un curry vegetariano (o, più raramente, di carne) e il dal, la zuppa di lenticchie che dà il nome al piatto. A decorare il tutto una sfoglia croccante di papad, lenticchie fritte.
Come lo consumano
Esiste un preciso rituale per consumarlo: va mangiato rigorosamente con la mano destra, versando la zuppa direttamente sul riso, che viene appallottolato e portato alla bocca insieme alle verdure o ai sottaceti. La versione vegetariana del piatto si chiama tarkari ed è la più popolare soprattutto perché permette un refill illimitato: i camerieri passano tra i tavoli con la ciotola del riso, quella della zuppa e quella delle verdure, riempiendo a piacimento i piatti.
I ravioli del Nepal
Secondi in ordine di popolarità sono i momo, l’unico piatto a uscire fuori dai confini del paese comparendo nei menu dei ristoranti cosiddetti asiatici di tutto il mondo. I ravioli di pasta all’uovo, ripieni di carne o verdure, sono una ricetta diffusa negli altri stati himalayani: Tibet e Bhutan. All’influenza indiana si deve invece la popolarità dei mistha bandar, pasticcerie-snack bar che vendono samosa e dolci molto zuccherini, mentre a quella cinese gli onnipresenti chow mein e i noodle: con uova o verdure, in brodo e non. L’ultimo fondamentale tassello della cucina nepalese è quello della cultura newari, la quinta etnia più diffusa e la più urbanizzata. Nei ristoranti newari - i più lussuosi sono a Kathmandu - si sperimenta un uso vivace delle spezie e una grande varietà di tagli e parti di carne, dal midollo fritto al polmone ripieno.
In Nepal, però, ci si va perlopiù a fare alpinismo o escursionismo, così nel numero di marzo del Gambero Rosso siamo andati alla scoperta della cucina dei trekkers.
a cura di Giorgia Cannarella
QUESTO È NULLA...
Nel numero di marzo del Gambero Rosso, in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con la cucina dei trekkers, dalla colazione alla cena, comprese le bevande e i distillati tipici. Un servizio di 10 pagine che mostra come il Nepal sia una strada per uscire dalla nostra comfort zone gastronomica. Il servizio include anche le 9 tavole da provare con tanto di mappa e le interviste a Norbert Niederkofler, che nel 2013 ha lanciato il manifesto Cook the mountain, e a Paolo Cognetti, che ha vinto il premio Strega 2017 con il romanzo “Le otto montagne” e nel 2018 ha pubblicato “Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Hymalaia”.
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