Il lavoro in nero nella ristorazione. L’indagine
La crisi degli ultimi mesi ha portato all’attenzione diversi nervi scoperti del settore della ristorazione, catapultato in una situazione certamente imprevedibile, ma certo già afflitto da problemi irrisolti e dinamiche (endemiche) controverse. E l’ombra del lavoro sommerso è una realtà che continua a mietere vittime, con l'aggravante che “in quanto fenomeno che sfugge alla normativa, assuma forme differenti, scaturite da un’altrettanto ampia gamma di motivazioni. E per sua natura sia dunque un fenomeno con importanti difficoltà di rilevazione e di misurazione”. È questa la premessa dell’indagine condotta dalla startup torinese RestWorld, impegnata nel campo della gestione e della valorizzazione delle risorse umane per la ristorazione e le attività ricettive in genere. In collaborazione con OCCCA (community che raccoglie oltre 160.000 addetti ai lavori del settore Ho.Re.Ca.), l’agenzia ha interpellato nella prima settimana di luglio 2020 un campione di 3471 persone, di età compresa tra i 20 e i 40 anni, a maggioranza impiegate nel settore della ristorazione (il 77% addetti ai lavori, il 12% titolari di imprese ricettive, poco più del 10% estraneo al mondo della ristorazione). Obiettivo: comprendere dimensioni e implicazioni del lavoro in nero nel settore di riferimento, attraverso nove domande specifiche rivolte al campione interessato. A partire da alcune premesse, che facilitano la lettura dei dati. L’ISTAT distingue differenti categorie di lavoro non regolare: continuative, occasionali, di stranieri non residenti e da attività plurime. E le molteplici forme di irregolarità all’interno dell’Ho.re.ca. possono corrispondere al tentativo di superare alcune criticità indicate dagli stessi addetti ai lavori, come la lunghezza dell’iter di assunzione o i costi del lavoro, percepiti come inefficienti e sproporzionati alle possibilità di ricavo. Per distribuzione geografica, il campione copre soprattutto alcune grandi città del Nord e del Centro Italia – Roma, Milano, Torino, Bologna – mentre il Sud è rappresentato da Napoli.
Quanti sono i lavoratori irregolari nella ristorazione?
Cosa è emerso? Il dato più rilevante è quello che riguarda la percentuale di intervistati che afferma di aver avuto esperienze di lavoro in nero: sono il 91% del campione. Il dato si ridimensiona quando si chiede di chiarire l’attuale condizione lavorativa: al momento dell’intervista, “solo” il 54% degli interpellati denuncia forme di irregolarità, anche parziali, nel proprio contratto (dunque il 46% si dichiara in regola, ma il 7% del totale dice di preferire lavorare senza vincoli o tutele per garantirsi maggiori guadagni, o, nel caso di studenti che arrotondano con qualche lavoretto nella ristorazione, per restare entro livelli di reddito che non precludano l’accesso ai contributi per il diritto allo studio, in modo analogo a chi percepisce l’indennità di disoccupazione). Un numero comunque molto preoccupante, che assume connotati imponenti allargando il campo al milione di lavoratori impiegati nel settore della ristorazione e delle attività ricettive italiane: mantenendo inalterate le percentuali, infatti, la proiezione denuncerebbe oltre 500mila persone in condizioni di lavoro irregolare (con quanto ne consegue anche in termini di evasione fiscale da lavoro in nero).
Il punto di vista dei datori di lavoro
E allora si passa a indagare la cause di un fenomeno tanto diffuso. Arriva in aiuto il dato emerso dalle risposte dei datori di lavoro: il 68% degli imprenditori di settore ammette di aver fatto ricorso a manodopera irregolare (“Ti è mai capitato di dover far lavorare persone in nero?”, la domanda). Perché? Innanzitutto per la necessità di disporre in tempi brevi della risorsa (aspetto tipico di queste attività), che mal si adatta agli iter burocratici richiesti da un’assunzione regolare, spiegano gli intervistati, prefigurando la necessità di individuare forme contrattuali specifiche per il settore, che tengano conto dell’elevata flessibilità che lo caratterizza. Ma pesa anche la difficoltà di far quadrare i conti: il 36% dei datori di lavoro dichiara che l’assunzione presenta costi non sostenibili. Mentre il 21% di loro lamenta un eccessivo carico burocratico. Dunque, desume l’indagine, “si può affermare che oltre la metà dei titolari si sente, in qualche modo, spinto dall’ente normatore a optare per l’illecito”. Constatazione, questa, altrettanto allarmante. Per contro, allo stato attuale, il 63% degli imprenditori dichiara di operare nel rispetto delle regole contrattuali; e dunque “solo” il 37% persevera sulla strada dell’irregolarità (a partire dalle prove di lavoro, svolte ignorando la normativa). Dunque, tutelare i diritti dei lavoratori è possibile. Ma la strada per debellare il lavoro in nero dalla ristorazione sembra ancora in salita.
a cura di Livia Montagnoli