L’importanza delle relazioni al ristorante
Vivere di relazioni, coltivare le nostre relazioni con il prossimo, oggi, può rivelarsi difficile. A scontare il prezzo di un distanziamento fisico che ha finito per tramutarsi in distanziamento sociale sono tutti quei luoghi nati per favorire l’aggregazione. E che sul piacere della convivialità hanno costruito la propria ragion d’essere. Come i ristoranti. Ma il gruppo de I Food Designer, che riunisce sotto un unico brand cinque professionisti che hanno fatto della ricerca sul design applicata al cibo un mestiere, si muove, quasi controcorrente, per ribadire l’importanza di preservare le relazioni. “La consapevolezza della qualità e della sicurezza, nei servizi di ristorazione, risiede nel recupero delle sue virtù relazionali”, sostengono Paolo Barichella, Mauro Olivieri, Ilaria Legato, Marco Pietrosante e Francesco Subioli, che dal 2006 condividono le loro ricerche, lavorando anche al servizio della ristorazione. Dunque proprio tornare a valorizzare le relazioni, ricostruendo quella ritualità che avvicinava per il tempo di un pasto ristoratore e cliente, può rivelarsi la chiave di volta per affrontare la lenta ripartenza. Offrendo anzi alla ristorazione un’opportunità, sostiene il collettivo dei food designer, per riappropriarsi di attenzioni, gesti e dinamiche partecipative che la routine aveva finito per banalizzare.
Ripensare il rituale della ristorazione per dare sicurezza
Dunque, per dirla con le parole del gruppo, “il segreto di una nuova ristorazione non risiede nell’assicurarsi buoni separatori in plastica, ma nel riscoprire un processo di servizio, fatto di responsabilità, qualità, attenzione che deve diventare naturalmente rituale”. In questa direzione, a supporto di chi vorrà intraprendere il percorso di riscoperta, si muove l’ultimo progetto dei Food Designer, volto a riscrivere le buone pratiche per recuperare la piacevolezza di gustare buon cibo in uno spazio sicuro, condiviso con altri. Il programma pilota è stato avviato a Firenze sotto la direzione di Ilaria Legato, presso il ristorante La Leggenda dei Frati di chef Filippo Saporito, che può beneficiare di uno spazio incredibile all’interno della storica Villa Bardini (e del suo giardino). Come si procede? Iniziando col soffermarsi sulle relazioni intrattenute dai diversi protagonisti della filiera, così da trasformare il lavoro del ristorante e l’esperienza del cliente in un circuito virtuoso.
L’esperimento a La Leggenda dei Frati
Dall’indagine preliminare è nato un copione, come quello che potremmo aspettarci in teatro, che mira a definire gli spazi d’azione e i rituali che ciascun elemento dello staff deve mettere in atto: “Un aspetto fondamentale del processo è rendere consapevole il ristoratore della necessità di offrire la sicurezza come merce prioritaria: un luogo, un servizio e un cibo integri, immuni da contaminazioni. Qualità da rendere evidente, perseguendo e mostrando una serie di attività finalizzate alla garanzia della salubrità totale. Per questo, di tutti i professionisti destinati a entrare in scena nelle varie fasi, è necessario definire tempi e modalità precise di intervento e relazione”. Iniziando dai fornitori che approvvigionano personalmente il ristorante: per loro, alla Leggenda dei Frati, è stato istituito un percorso preciso, con entrata dedicata, tempi di arrivo e permanenza prestabiliti, regolando le dinamiche di carico e scarico secondo una scaletta predefinita e con obblighi di cura della persona e azioni di sanificazione.
Fornitori, cucina, personale di sala. Tutti coinvolti
Tra l’altro, la pianificazione dettagliata degli scambi ha permesso di ricavare spazi di confronto tra squadra di cucina, personale di sala e fornitori, che ora si ripetono con cadenza bisettimanale, e hanno generato un progetto collaterale in più, dedicato alle erbe selvatiche, che si è concretizzato con la formazione del gruppo Manna, guidato da Simone Moschini, titolare di Cavolo a Merenda. Nel frattempo si è lavorato sulle modalità di servizio e sul valore del personale di sala, che ha partecipato a workshop mirati a potenziare le cosiddette soft skill, qualità relazionali che oggi sono più difficili da coltivare dietro alla barriera della mascherina (ma la parola d’ordine è sorridere con gli occhi). Il menu è fornito al cliente in copia unica, firmata dallo chef, così che possa diventare il ricordo di un’esperienza; ai detergenti presenti in sala è stato affiancato uno spray realizzato da Acquaflor, realtà fiorentina com’è la Sartoria Montezemolo, che ha ideato le mascherine personalizzate per lo staff.
E il cliente? “Entra a far parte di questo nuovo rituale in modo attivo, vivendo lo spazio in tutta tranquillità. Se in precedenza la certezza di trovarsi in un contesto in cui fossero adottate le buone pratiche era una speranza nascosta nel proprio intimo, oggi questo assunto deve diventare elemento assodato nel processo dell’ospitalità”.
Foto di Paolo Matteoni