Un giro d’Italia con il lambrusco, un grande abbraccio tra la cucina italiana e un vino che negli anni ha poco raccontato di sé. Il lambrusco è “l’umile champagne” dell’Emilia-Romagna. Così negli anni ’50 Mario Soldati lo descriveva nel suo indimenticabile “Vino al vino”. Da allora tante cose sono cambiate, ma il lambrusco, sempre per citare Soldati, resta quel vino che, nella grande maggioranza dei casi, si crede di conoscerlo, e invece lo si ignora. La forza di questa storia però è proprio in quell’avere attraversato il tempo proteggendo dalla ribalta la sua anima contadina. Lo ha fatto con la complicità di una comunità che a tratti ne ha addirittura nascosto la natura, relegando il lambrusco più autentico nelle abitudini delle famiglie di campagna. Per questo oggi la storia di questo vino è ancora autentica e credibile e diventa con rara naturalezza racconto e scoperta.
La storia
La via Emilia spacca a metà quel mondo di vigne che è l’Emilia più classica del lambrusco, tra Modena e Reggio Emilia. Da una parte, verso l’Adriatico, i paesaggi piatti di nebbie, fossi e immensi argini, dall’altra l’Appennino che sale piano disegnando calanchi e immensi campi di terre colorate, dal nero al rosso passando per l’azzurro e, addirittura, il nero. A fare da filo conduttore i campanili che si vedono da lontano e segnano il paesaggio con le loro sagome scure. Un mosaico di situazioni diverse con decine di diversi lambrusco, un patrimonio di diversità che è stato spesso banalizzato da un racconto troppo semplice appiattito genericamente sull’idea di rossi frizzanti. I lambrusco infatti sono decine, tutti figli di quella domesticazione della vite che è avvenuta nei suoli fradici della pianura padana ancora non bonificata. Oggi, ce lo confermano le analisi del DNA, sappiamo che questa famiglia di vitigni è figlia della sua terra e che qui non è arrivato nessun gene orientale a contaminare la vite. È una scoperta recente, che testimonia l’originalità di questo patrimonio. Queste uve, vendemmiate tardi, spesso alla fine di ottobre, fermentavano a fatica a causa del freddo e la fermentazione a un certo punto quasi si fermava per riprendere con il caldo della primavera avanzata. A quel punto però il vino, spumeggiante, si consumava ugualmente e questo ha indirizzato un gusto che era anche perfetto per la cucina generosa di queste terre. Stiamo parlando di una cultura contadina, di un racconto tutto territorio e tradizione. Poi successe qualcosa, qualcosa che cambiò la storia del lambrusco.
La rivoluzione di Cleto Chiarli
Tutto ha inizio in una osteria a metà dell’Ottocento. Siamo a Modena, e l’oste si chiamava Cleto Chiarli. Nel 1850 l’Italia era a un passo dall’inizio della sua storia unitaria. C’era ancora da fare la guerra di Crimea e la seconda guerra di indipendenza italiana, ma c’era già nell’aria il profumo del declino austriaco e della vittoria del Risorgimento italiano. Modena in quegli anni era la capitale del Ducato di Modena e Reggio, ripristinato dal Congresso di Vienna all’inizio dell’Ottocento. Lo fu fino al 1859, quando la storia di Cleto Chiarli e della sua rivoluzionaria produzione di lambrusco era già cominciata.
La famiglia Chiarli era originaria di San Cesario sul Panaro dove Cleto Chiarli faceva il capomastro e da dove partì con la moglie Lucia Vandini per aprire a Modena un’osteria, in via della Cerca, nel quartiere della Pomposa. Non c’è una data precisa per questo trasferimento, che avvenne quando Cleto, classe 1932, aveva poco più di vent’anni. L’Osteria, chiamata dell’Artigliere, ebbe un grande successo e presto il vino servito divenne famoso in tutta la città. La moglie si occupava della cucina e Cleto si occupava della sala e di produrre quel lambrusco che ben presto divenne il suo interesse principale. Se ne andava in campagna a scegliere le migliori uve e produceva con grande maestria i suoi vini e le sue prime bottiglie. Aveva un dono innato, una speciale sensibilità che affinava le pratiche di cantina a lui insegnate dal padre. Una tradizione di campagna come era comune allora che lui portò rapidamente ad un livello superiore. Ebbe successo. In fretta, sempre crescendo. In poco più di due anni diventò fornitore delle altre osterie modenesi. Attrezzò un piccolo opificio in via della Scimmia (oggi Nazario Sauro) dove i Chiarli avevano anche una casa. Cleto divenne così un produttore di vino. Siamo nel 1860 come testimoniato da una pergamena datata 1911 che ricorda i 50 anni di attività celebrati nel 1910. Quell’anno, il 1860, non vede solamente la nascita di un’azienda che porterà nel mondo il lambrusco, ma è la data che saluta la nuova identità di un vino fino ad allora semplicemente contadino, capace da lì in poi di rivendicare un ruolo da protagonista nel mondo. L’intuizione di produrre bottiglie fu una svolta epocale che mise Chiarli nella condizione di spedire ed esportare. L’anima contadina restò a fare la guardia all’identità del lambrusco, ma Cleto Chiarli ha il merito di avere inventato il lambrusco come lo conosciamo oggi, capace di portare nel mondo lo spirito di Modena, la convivialità e la cucina di un territorio straordinario.
Il Giro d'Italia con il Lambrusco. La cena
Abbiamo organizzato in suo onore un “giro d’Italia” in una cena, un viaggio in 5 piatti per riportare questo vino nel cuore della ristorazione italiana, coinvolgendo alcuni tra i migliori cuochi italiani: Marianna Vitale, Mauro Uliassi, Marcello e Mattia Spadone, Nino Rossi e Cristiano Tomei. Con loro – e i piatti ideati da ognuno per l'occasione - ci ritroveremo a Roma il prossimo 12 novembre, per celebrare Il Giro d'Italia con il Lambrusco. Una serata all'insegna del buon cibo, a cominciare dalla valorizzazione del territorio emiliano, protagonista con il suo paniere di eccellenze dell'aperitivo di benvenuto: Lambrusco metodo classico, salumi emiliani, Parmigiano Reggiano. Poi spazio alla creatività degli chef: per scoprire il menu seguiteci nelle prossime settimane.
Il Giro d'Italia con il Lambrusco - Roma - Sheraton Rome Hotel - il 12 novembre 2018 - Partecipa all'evento
a cura di Giorgio Melandri
In collaborazione con