Tra i più noti bartender fiorentini, Julian Biondi, carica la macchina di distillati, limoni biologici e bitter, Roner e bicchieri e parte per il locale dove lavorerà un weekend, o una settimana, preparando cocktail e portando storie di sostenibilità. Andrea Moser, inserito da Fortune tra i 40 under 40 che stanno segnando la rinascita del vino in Italia, lascia il “posto sicuro” dopo nove anni alle cantine Caldaro e va in cerca di vigne vecchie in luoghi poco battuti, per distillare vini in limited edition. Oggi in Toscana, l’anno prossimo chissà. Seguendo l’istinto, la curiosità.
Sono due casi estremi, ma potrebbero segnalare l’avanguardia di un nuovo modo di lavorare e una nuova filosofia di vita. Forse anche conseguenza dal Covid che tanto ha flagellato, economicamente e psicologicamente, un settore che viveva di socialità e che improvvisamente si è trovato chiuso fino a data da destinarsi. Insomma, dopo i nomadi digitali arrivano i nomadi del distillato, della vigna e di quel mondo che ruota intorno al bere, miscelato e non.
Bartender globetrotter
Vero è che il bartender da sempre viaggia per il mondo. Basti pensare all’amplissimo uso che i bar fanno delle “guest”, le ospitate di bartender famosi che con l’avvento dei 50 Best Bars ha assunto proporzioni di un vero e proprio flusso migratorio, con professionisti dello shaker che un giorno si trovano a miscelare a Singapore e tre giorni dopo sono magari a Parigi o a New York. Così il cliente restando fermo può incontrare i suoi beniamini, provare i loro stili, immaginarsi su una spiaggia tropicale a sorseggiare un twist d’un Margarita o un Yuzu Whisky Sour in un grattacielo di Singapore. E il barista? Viaggia, senza sosta e senza un perché, a volte. Ma spesso con lo sponsor di un brand che sostiene l’operazione.
Biondi e Kovrigina: "seminare" ecologia
Altra cosa è Seeds, il progetto di Julian Biondi e Anastasia Kovrigina: nato lo scorso aprile, fino a fine anno sarà all’Ostello Tasso di Firenze, ad agosto si è spostato all’Hotel Atlantico di Castiglioncello, dal 2024 chissà: magari in una località di montagna, poi forse nel Chianti. E magari pure all’estero. “L’abbiamo chiamato così perché vogliamo spargere semi, portare a un numero di persone maggiore possibile il nostro messaggio”. Che è quello di una mixology sostenibile che usa prodotti locali o da fornitori impegnati nella questione ambientale e distillati autoprodotti. “All’inizio pensavamo a un locale, poi abbiamo capito che il contenuto era più importante del contenitore, che poteva cambiare. Dalla terrazza di un hotel sottoutilizzata per mancanza di personale alla settimana della moda o a un bar che vuole partecipare alla cocktail week. Ogni location è possibile”.
Che differenza c’è con le ospitate? “In quel caso è il bartender che si sposta, nel nostro noi ci portiamo dietro tutto: il nostro approccio sostenibile alla mixology. Ma anche ricette, cucina, bicchieri, bag in box (più sostenibili delle bottiglie) e tutto ciò che ci può servire”. Una vera “carovana” di idee pronta a partire: anche, è l’ultima novità, con il catering.
Mr. Lyan: chiudo, apro, resuscito
Una sorta di ispirazione (se c’è) per Seeds, Biondi la trova nel mitico Mr Lyan, all’anagrafe Ryan Chetiyawardana, un brand in sé e deus ex machina dietro i bar più innovativi di Londra degli ultimi anni, dal White Lyan (primo bar a non usare materie prime deperibili) al Dandelyan, al Cub. Chiuso uno, ne apriva un altro con un nuovo concept. A Londra rimangono Seed Library e Lyaness, all’Hotel Sea Container, dove i primi tre bar di Mr Lyan “risorgeranno” dal 10 al 13 ottobre, ognuno con la sua filosofia e i suoi cocktail. Poi ci sono il Silver Lyan a Washington DC e il Super Lyan ad Amsterdam ma anche i “lyan-pop up”. Insomma, il re dei cocktail apre e chiude bar senza drammi, compreso il Dandelyan che nel 2018 fu il migliore del mondo secondo i World's 50 Best Bars. Come dire, cogli il momento e segui l’ispirazione, tanto il tuo nome è forte e il cliente, pure lui un po’ nomade, ti seguirà fiutando l’aria, e i social, come un coyote nella prateria.
Andrea Moser: vai dove ti porta la vigna…
C’è chi nel nomadismo vede la suprema libertà e chi evoca visioni di Unni che calano sulla meta una sera per tagliare la corda la mattina dopo, senza lasciare ostaggi né rimpianti.
“Sono e mi sento assolutamente un ‘nomade’ ma non ho interesse a sfruttare una zona per poi spostarmi in una nuova con nuove possibilità, come il termine potrebbe far pensare – puntualizza l’enologo Andrea Moser – In realtà il mio nomadismo è incentrato alla protezione del territorio in cui lavoro e che percorro, al recupero di vigne molto vecchie e al loro miglioramento ma anche alla creazione di nuovi vigneti, dove sia necessario. Sempre e comunque in sinergia con il suolo e la sua relazione con la pianta e in relazione a una visione più dinamica di comunicazione degli obiettivi aziendali. Tutto questo mi permette di avere più flessibilità e più reattività nel pensare ai miei progetti ma anche nel portare nuova linfa e nuove esperienze alle aziende con cui collaboro”. AMProject, che Moser ha sviluppato con il fratello Luca, anch’egli enologo, si sposterà “nei luoghi che sceglieremo o che per elezione ci hanno scelti, per produrre ogni anno dei vini unici, non convenzionali ma fortemente territoriali. Vini senza rete di sicurezza, del cuore: ogni anno cambieranno e racconteranno luoghi, territori, persone, vitigni e idee”. Il primo temporary wine – solo 726 bottiglie numerate – è disponibile in preordine a ottobre e viene da Anghiari, nell’Aretino, da vigne di 80 anni abbandonate da 40.