Diciamoci la verità: la pentola bollente alla cinese non ha mai conosciuto tanta fortuna in Italia. Anni fa, a Milano (e dove sennò?), c’era un posto che andava piuttosto di moda, in cima a una specie di centro commerciale pieno di neon in una via “affluente” di via Sarpi, si chiamava Il Tesoro. Un luogo di uno squallore divertente e modaiolo che a un certo punto, sapete come vanno le cose sulla scena gastronomica milanese, divenne squallido e basta, e io commisi l’errore di accorgermene appena troppo tardi.
Primo locale italiano
Ora invece l’hot pot punta a conquistare davvero Milano e lo fa calando il jolly. Ha aperto da qualche mese al numero 21 di via Farini, tra Chinatown e il Monumentale, il primo ristorante italiano di Shoo Loong Kan, una catena internazionale con centinaia di locali in tutto l’Oriente, qualcuno anche in Europa, ma ancora pochi. Una vera fabbrica dell’hot pot, un luogo da grandi numeri ma che ha tutto per piacere ai milanesi.
Un format interattivo
Innanzitutto l’hot pot è divertente e interattivo. Ti siedi a questo tavolo che al centro ha un fornelletto sul quale viene deposto un padellone pieno di un brodo che così resta sempre bollente. Da questo momento in poi le regole sono un po’ quelle della fondue bourguignonne: prendi delle cose a caso e le cuoci dentro tu stesso, e dovresti usare bacchette diverse per il crudo e per il cotto ma nessuno sta poi là a sindacare. Sappiamo bene come questi meccanismi creino condivisione, in gruppo si provano tante cose e si spende meno, perché si utilizza lo stesso brodo a un prezzo fisso.
Brodi in quattro varietà
Shoo Loong Kan ha preso questo tradizionale modo di mangiare cinese (in realtà è di origine mongola) e lo ha portato a Disneyland. Un locale molto grande, 1200 metri quadri, 218 coperti, allestito come un villaggio cinese antico – vabbè, il gioco funziona fino a un certo punto -, dei tablet per ordinare scegliendo da una lista di carni a volte hardcore (ci sono tante interiora), pesci, vegetali, tofu, noodles artigianali, il tutto tagliato in fettine sottili o in pezzettini per agevolarne la cottura, che a seconda dei casi può andare da pochi secondi a qualche minuto, e il personale molto sorridente sarà lieto di spiegarvi il know how. Il brodo è di quattro tipi differenti, da quello tradizionale con osso di maiale a quello piccante con tre gradi di audacia (per la prima volta il consiglio è di non sfidare il senso cinese per lo spicy), poi quello ai funghi e quello al pomodoro. Se ne può scegliere uno soltanto oppure la combo da due o da tre tipi in padelle opportunamente suddivise. Il brodo, che costa dai 12 ai 15 euro e dura per tutta la cena, non è salato ma si insaporisce in corso di cottura. Ci sono anche dei piatti pronti, tra i quali ho provato un notevole riso uova e mais, tra i migliori assaggiati a Milano.
Ingredienti freschi
Il gioco funziona, la manualità diverte, la necessità di attendere del tempo rende il momento del mangiare un atto quasi religioso, gli ingredienti sono tutti di elevata qualità e anche da crudi hanno una “bella faccia” (lo stesso non si può dire per altri locali hot pot provati negli ultimi anni a Milano), e poi qui non si prelevano da un bancone self service che inevitabilmente a fine serata assomiglia a una Waterloo post-battaglia ma vengono portati a tavola da un cameriere, ciò che spinge inoltre a essere più selettivi e a sprecare meno cibo. Le salse, invece, quelle bisogna prenderle da soli a un banchetto, assieme alle altre guarnizioni. Certo, l’elenco degli alimenti “brodabili” è talmente sterminato da essere intimidatorio e incoraggia alla fine a premere tasti a vanvera e vedere che cosa succede. Almeno per me è andata così. C’è una carta dei vini ma alla fine una birra lager è una buona opzione. Il personale è sorridente. Il locale è sempre pieno, io per prenotare ho fatto fatica, ed era una domenica sera in cui giocava il Milan. Tra i clienti tanti orientali, che secondo la vulgata è sempre un buon segno. Il conto è giusto, in due potete spendere 70 euro. Ma la mano d’opera è la vostra.