Questo è solo un piccolo esempio di un modo di comunicare, esclusivo e (spesso) sbagliato, il pane. Ma di “errori” comunicativi ne è pieno il mondo (specie il mondo del marketing) delle farine e dei lievitati. Abbiamo chiesto a Carlo Di Cristo, panificatore di Foorn a Mariglianella e a Napoli - presto anche in Costiera - di sfatare i miti più diffusi, dagli alveoli grandi alle farine macinate a pietra.
Grandi alveoli non è sempre sinonimo di buona lievitazione
“I prodotti alveolati sono poco indicativi della qualità della lievitazione”, spiega Di Cristo. “Ad esempio, se sono iper alveolati è possibile che il prodotto sia sotto fermentato. Premesso che non sempre l'alveolo che vediamo è una reale cella dove si è accumulata anidride carbonica (in realtà può pure essere una reazione di impastamento che determina delle camere alle quali diamo erroneamente il nome di alveoli), si vedono spesso immagini di pani con grandi alveoli ma attorno una struttura interna estremamente densa”. In questo caso che cosa vuol dire? “Probabilmente è dovuto all'utilizzo di una farina con un'accentuata capacità di espandersi e alla cottura di impasti sotto fermentati, il che provoca, nel forno, una “esplosione” di alveoli, e al tempo stesso alcune zone della mollica rimangono molto dense (non parlo di micro alveoli), queste sono indice del fatto che la farina non ha avuto il tempo di trasformarsi”.
Altrettanto spesso vengono fatti passare per prodotti iper alveolati, pani che in realtà sono andati oltre fermentazione: “Li si può riconoscere ad occhio nudo, sono quei pani che hanno grossi alveoli nella parte superiore, vicino alla crosta, e sono ammassati sotto”. Dunque, non è detto che un pane con grandi alveoli sia ben lievitato, in quanto la lievitazione ottimale è il risultato di più fattori, dall'energia impiegata nella lavorazione alla quantità di acqua che c'è nell'impasto, dallo stato del lievito al tipo di farina utilizzata. Ci sono, infatti, farine che non consentono lo sviluppo di grandi alveoli, tipo quella di segale o più in generale le farine a basso contenuto proteico: il tenore proteico dipende da una caratteristica genetica dei grani che la compongono ma anche dal metodo di concimazione, se si utilizzano tanti nitrati nella concimazione questi sono una delle fonti di azoto che serve per la costruzione delle proteine.
Le farine da “grani antichi” sono più digeribili?
Che non ci sia abbastanza letteratura scientifica che dimostri la maggiore digeribilità di pani realizzati con farine di grani antichi (forse meglio parlare di grani autoctoni) è un dato di fatto – la divulgatrice scientifica Beatrice Mautino ci bacchettò in seguito a questo articolo dove parlavamo di un singolo articolo scientifico, ma ancora non “digerito”, per restare in tema, dalla comunità scientifica – ma è altrettanto incontestabile il fatto che quando mangiamo (l'autrice dell'articolo) un pane con farine di grani autoctoni lo percepiamo più digeribile. È solo una percezione? “La farina è fatta per lo più di amidi e questi sono la cosa più facile da digerire. E non è nemmeno un problema di proteine, basti pensare alla pastasciutta che è fatta anch'essa di proteine ma una pasta non è mai rimasta sullo stomaco. Le proteine, al massimo, creano un problema di masticazione: se io ho usato una farina ad alto contenuto proteico e le ho dato un tempo di lavorazione inadeguato - quindi le proteine non vengono trasformate in modo corretto - avrò alla fine un impasto “mollicoso”, un po' chewing gum. La pesantezza nutrizionale è legata ad altre componenti, tipo i grassi nei latticini o nell'olio aggiunto. E poi i problemi di digestione umana sono soggettivi e legati alla microflora umana o ad altre caratteristiche soggettive, tipo il livello di stress”. A dirla tutta dal punto di vista scientifico il trend del futuro sarà andare verso la non digeribilità. “Nel grano, e dunque nelle farine, c'è una quota di amido resistente alla digestione, ora si stanno selezionando dei grani in cui il tasso di amido resistente alla digestione sia sempre più alto perché di fatto libera meno zuccheri e dunque non incide in maniera massiva sui picchi glicemici. E qui si pone una lente di ingrandimento sul concetto di digeribilità: quando si parla di digeribilità non ci si riferisce a quella soggettiva dell'essere umano ma si intende la digeribilità delle componenti della farina”.
Meglio le farine molite a pietra?
“Non sempre”. È categorico Di Cristo perché effettivamente la molitura a pietra crea delle caratteristiche che si possono apprezzare o meno, ma non significa che dia un prodotto migliore di una macinatura a cilindri. “La pietra, ad esempio, riscalda moltissimo e implica la perdita di micronutrienti durante la molitura, a meno che non si usino sistemi più sofisticati (i mulini più strutturati solitamente combinano le due moliture), ma al tempo stesso viene molito tutto il chicco di grano e quindi le sue parti essenziali rimangono nella farina. In generale una farina da molitura a pietra ben fatta è un ottimo prodotto, il problema sta nei molti mulini sparsi in Italia che non rispettano i più basilari standard di sicurezza e che propongono farine di scarsa qualità, anche con presenza di micotossine o peli di roditori, e difficili da lavorare. Non è certo un caso che mulini più strutturati spendano gran parte della loro metratura per gli impianti di pulitura”. Non basta, dunque, molire a pietra per garantire un prodotto di qualità. Occorre passare per le tecniche di coltivazione, per le varietà scelte sui terreni, per i trattamenti post mietitura, per le modalità di conservazione del grano, per la dotazione tecnologica del molino, per il tipo di pietra.
Ultimo nodo da sciogliere: meglio se si utilizza il lievito madre?
“Se non trasformo bene la farina il prodotto ne risentirà, a prescindere dal lievito utilizzato”. Bene il lievito madre, solo se gestito e usato correttamente.