Di qua e di là dai Pirenei: due culture, due cucine si incontrano a San Sebastian, cittadina basca ad appena una ventina di chilometri dal confine francese. E su questa distanza ravvicinata si concentra l'indagine di Gastronomika 2021, edizione della Reunion. Segno di una stagione che ancora vive di limiti e restrizioni (giusto un paio gli interventi extra continente, quest'anno), ma anche di una nuova consapevolezza che consente alla cucina spagnola un dialogo alla pari con la francese.
È un confronto che rimbalza sul palcoscenico del Kursaal, per definire traiettorie, influenze e contaminazioni nel segno di una unione gastronomica che si smarca di competitività obsolete: “la nostra cucina non sarebbe quella che è senza la cucina francese” dicono gli chef del comitato tecnico del congresso - e forse nessuna grande cucina può dirsi scevra dall'influenza di questa tradizione - rincara la dose il patriarca Juan Mari Arzak che ribadisce: “I grandi chef francesi ci hanno insegnato molto”. Generazioni di spagnoli si sono formati in Francia, ribadisce Hilario Arbelaitz e la conferma arriva da Joan Roca con la lunga carrellata-tributo ai maestri francesi che lo hanno ispirato, attraverso le tecniche e la visione, le ricette provate nei ristoranti o lette nei libri, l'esempio della loro organizzazione e la visione anche imprenditoriale di sistemi ristorativi complessi, gli stage.
Ma oggi? “Perché gli chef spagnoli non vanno più a formarsi in Francia?” chiede Pierre Gagnaire, leggenda della gastronomia mondiale. “In Francia, 35 anni fa si facevano cose diverse, le stesse cose che facciamo qui adesso”, fa Paco Pérez, che aggiunge: “la Francia è la Francia, una culla della gastronomia”. Ma oggi anche la Spagna ha grandi maison dove andare a imparare. “È forse il momento di uccidere il padre?” insinua Toni Massanés, direttore del centro di ricerca gastronomica Fondazione Alicia, a sublimare la conquistata maturità di una cucina capace di esprimere grandi talenti e biodiversità gastronomica, in modo più diffuso di prima. Forse, per dirla con Paco Morales (Noor, Córdoba), non ci sono fuochi d'artificio tutti i giorni, ma la lezione di Ferran Adrià, quel mettere continuamente in discussione tutto, ha creato un DNA nella gastronomia spagnola.
L'omaggio ad Alain Ducasse
L'omaggio parte con un significato Premio Homenaje assegnato ad Alain Ducasse e alla sua straordinaria collezione di insegne (e relativi riconoscimenti) che proprio la scorsa settimana si è arricchita di un nuovo indirizzo aperto a le Ombres, nel Musée du Quai Branly insieme ad Albert Adrià: ADMO, acronimo di Adrià-Ducasse-Meder-Ombres. Un esperimento gastronomico, questo “ristorante di alta cucina europea”, che costruisce un ponte tra due territori, due cuochi, due filosofie, due brigate che trovano un indirizzo comune che varca i confini. Uno sguardo al futuro gastronomico fatto di ponti e non di muri. Un progetto ad alto tasso di attrattiva (e un menu da 380 euro bevande escluse) che nasce all'indomani della chiusura del Plaza Athénée dopo 21 anni e dei ristoranti di Adrià: Tickets, Pakta, Hoja Santa ed Enigma. C'è chi alla crisi reagisce rilanciando. Ma quando rilancia questa coppia, punta davvero verso il cielo, con tanto di vista alla tour Eiffel. Lista d'attesa già aperta per i 100 giorni di servizio.
L'influenza della cucina francese su quella spagnola
Il tema chiave di quest'anno si sviluppa attraverso una intensa narrazione a più voci che si snoda tra video, ricette e tavole rotonde che – con una puntualità strabiliante visto il fittissimo programma – si alternano sul palco.
Non si tratta solo di basi e di tecniche classiche (come le salse che Romain Fornell rivendica come fondamentali nella sua cucina: beurre blanc, bernese, fondi, frutto di manualità, pazienza, tecnica, materia prima) ma di un patrimonio culinario ben più ampio: “La Francia è un modo di intendere la gastronomia: è sinonimo di rispetto del prodotto, ricerca della cottura perfetta, non avere fretta con i brodi” racconta Juanlu Fernandez che nel suo locale Lú, Cocina y Alma celebra l'incontro tra le sue culture gastronomiche: quella andalusa e quella francese. Senza dimenticare la pasticceria: anche se il primo ristorante di dolci al mondo - Espaisucre – porta la firma dello spagnolo Jordi Butrón, “La Francia è nostra madre, in tutto”, parola di Butrón. Insomma: l'influenza francese è ancora molto presente, come lo è stata storicamente anche nell'organizzazione della cucina (lo conferma Arzak), e continua ancora oggi: “In Francia ci sono 40 ore lavorative settimanali” fa Morales “Dobbiamo ripensare il settore dell'ospitalità, penso che sia in nostro potere questo cambiamento. Non può essere è che perché alcuni possano godere, altri devono soffrire”. La formula? Aprire meno giorni, con doppio servizio: “Siamo stati tra i primi in Spagna ad aprire solo quattro giorni, come a Parigi”.
Ma non bisogna pensare alla Francia come a un panorama gastronomico immutabile, che vive solo di grandeur: la stagione della bistronomie lo testimonia come lo testimoniano alcuni interventi, quello della messicana di stanza a Parigi Beatriz González (suo Taco Mesa, una taqueria di cucina messicana con accenti francesi, sua terza insegna dopo Neva Cuisine e Coretta), quello sulla cucina senza glutine di Nadia Sammut (Aubergue La Fenière , Cadenet, Francia), o di Amandine Chaignot – un passato dai grandi di Francia e un presente a misura d'uomo - che nel suo Pouliche propone una cucina semplice, spontanea, sincera, locale e stagionale, una cucina attenta all'ambiente con un chiaro focus vegetale, dove carne e pesce sono contorni; una cucina molto tecnica, in cui si gioca con consistenze, sapori, come nella sua bietola con le vongole, ricca di textures e aromi.
Anche Alexandre Mazzia (AM, Marsiglia, Francia), esprime con un percorso del tutto originale, che racconta la sua infanzia in Congo e il suo viaggio interiore. “Non abbiamo menù, ma un prezzo suddiviso in viaggi brevi, medi e lunghi”. Presenta le sue sequenze, vari bocconi in cui si rincorrono trame e consistenze ottenute con diverse cotture, burri (ne ha una ventina chiarificati che usa nelle preparazioni), le cotture degli ingredienti nel loro stesso succo per amplificare i sapori.
I temi chiave: il prodotto
Prodotto, naturalità, rispetto per la materia prima e il territorio, con il riferimento a pratiche etiche nell'agricoltura e nell'allevamenti: alcuni dei temi chiave sono quelli che si rincorrono da una parte all'altra del globo. Ne parla Marc Veyrat (La Maison des Bois, Plaisir), ma non solo: c'è chi cerca nuove traiettorie espressive per lo zero waste e per la valorizzazione dei prodotti: è il caso del dolmen di sola la rapa rossa che ne impiega ogni parte o il porro firmato da Xavier Pellicer, che non manca un commento sull'energia delle verdure biodinamiche che tenta di mantenere integre, che hanno ricevuto il plauso del suo maestro Alain Dutournier (ancora un binomio Spagna-Francia)
Ma della preminenza del prodotto e del legame con l'ambiente parla anche Aitor Arregi di Elkano (Getaria) uno dei templi della griglia, dove il fuoco è domato e piegato al prodotto, qualunque esso sia, che proprio attraverso il suo fuoco raggiunge l'eccellenza; l'emblema della casa è il rombo, ma non è l'unico: dipende dai momenti dell'anno e dalle situazioni: "Bisogna sapere cosa mangia quel pesce, chi lo pesca, quando depone le uova, dove si muove, quando mangiarlo". Con lui il team Asier Senarro, Koldo Manterola e Pablo Vicari a raccontare un legame con l'ambiente fondamentale in un luogo in cui tutto verte attorno al prodotto, alla capacità di usarlo in ogni parte (perfino la vescica natatoria) nel momento e nel modo migliori. “Dobbiamo adattarci al mezzo, interpretarlo e trasmetterlo attraverso la griglia. Parliamo di territorio, prossimità, temporalità, conoscenza... Senza tutto questo il fuoco non ha senso. Quella conoscenza si crea all'interno di una comunità”.
Tutto per definire un “paesaggio culinario”, con coordinate certe che possono essere replicate purché vi sia conoscenza dell'ambiente e il lavoro con le popolazioni locali, così come per Cadice Cataria. Il paesaggio dunque mantiene un primato: sia nella Spagna della cucina di avanguardia - Luis Covalls di El Poblet racconta il bello e il buono dell'Albufera, con il suo riso – che nel Perù di Virgilio Martinez, esploratore del territorio, degli ecosistemi e dei prodotti del suo paese (un po' come fa in piccolo anche Veyrat che lavora alla catalogazione di piante dimenticate, a oggi 50 tipologie): nella sua ponencia si concentra sul movimento naturale di paiche e sui semi di cacao, lanciando un appello per la salvaguardia dell'ambiente.
Mentre il suo quasi conterraneo – Álex Atala - ha illustrato un ingrediente feticcio dai mille usi e dai molti nomi: manioca, mandioca, yuca, che poi diventa tucupì, farofa, tapioca, anche 20 elaborazioni di diversa origine ottenute lavorando la manioca con acqua alcalina o acida: “acqua, mandioca e amore e si tira avanti”, fa e aggiunge: “mi ha sorpreso come le culture indigene siano in grado di sviluppare un'enorme quantità di elaborazioni per un singolo ingrediente” perché il lusso non è in un prodotto o l'altro, ma nella capacità di trasformarli per trasmettere sapori, consistenze e culture, che è l'essenza della buona gastronomia. La cucina brasiliana è piena di ingredienti adottati dalle comunità indigene: “le interpretazioni culturali di ogni piatto sono ciò che ci permette di giocare con gli ingredienti e, in definitiva, con le emozioni in gastronomia”.
Prodotto è sinonimo di scoperta per Angel Leon, el chef del mar (Aponiente, Cadice) è da anni un attento esploratore dell'ambiente marino, che passa in rassegna alla ricerca di nuovi tesori alimentari (consociamo una percentuale minima di quello che il mare può dare), dopo i cereali, i vegetali, i salumi e il miele, ora è stato il turno delle olive di mare, che di quelle di terra hanno l'aspetto, i colori e anche il sapore: derivano da piante trovate nell'Atlantico, di origine venezuelana - un tipo di Sesuvium- le cui drupe non hanno bisogno di salamoia, l'obiettivo, ora è piantarle a Cadice, in prossimità dell'estuario. Con l'idea di sfruttare a uso agricolo – come per la posidonia - anche le risorse di acqua salata, che sono oltre il 90% del totale. Ottimi progetti: "ma sfortunatamente devono essere redditizi perché abbiano successo".
Le olive sarebbero il completamento di un perfetto aperitivo marino: oltre al prosciutto, anche un formaggio presentato a San Sebastian, sorta di camembert preparato con il lattume di tonno rosso lavorato per oltre 24 ore, trattato con un'alga che coagula, e inoculato del fungo Penicillium candidum, "Così otteniamo la forma e il sapore di un Camembert aromatizzato al mare e salato".
Parole chiave: la tecnica. Liofilizzazione, sferificazione, fermentazione
La tecnica è ancora protagonista nella cucina spagnola, nelle sue migliori espressioni è al servizio del risultato nel piatto, lo è la liofilizzazione per Paco Pérez (Miramar, Llançà, Girona), secondo catalano, dietro a Jordi Cruz, per stelle Michelin, per cui questa tecnica serve a potenziare il sapore dei prodotti.
Gli chef del Disfruatr - Eduard Xatruch e Oriol Castro in presenza, Mateu Casañas, dal ristorante - presentano a Gastronomika i progressi del lavoro di sferificazione: la possibilità di incorporare elementi solidi nello strato esterno e di fare sferificazioni a due colori con cui hanno realizzato un falso uovo d'oro. I catalani hanno anche presentato riduzioni di succhi di frutta e latti vegetali, con il Girovap, distillatore sottovuoto con cui realizzano i vini dealcolizzati. "Le riduzioni” spiega Xatruch “sono interessanti perché creano consistenze diverse, più cremose, come lo sciroppo in alcuni casi che possiamo utilizzare in innumerevoli applicazioni".
A testimonianza del ruolo della ricerca tecnica, l'intervento di Jorge Bretón, John Regefalk, Luis Arrufat, docenti del Basque Culinary Centre che tracciano una retrospettiva del primo decennio del BCC che ha formulato la sua identità didattica partendo da due patrimoni: la nouvelle cuisine e la nuova cucina basca e mette insieme conoscenze di base, sguardo sul territorio e tecniche all'avanguardia: "in modo che i nostri studenti sappiano oltre al come, il perché dei processi in cucina" spiega Bretón. Come controllare la conoscenza è uno degli obiettivi, insomma. Tra gli approfondimenti, immancabile quello sulla fermentazione: “lattica alcolica asettica o mista: tecniche antiche, ancestrali che trovano posto in un contesto contemporaneo. Un tendenza gastronomica che pensiamo possa essere uno strumento di trasformazione e creatività” spiega Regefalk. Oggi cambia la conoscenza tecnico scientifica del processo, a partire dall'intervento degli enzimi, un passaggio necessario da trasmettere perché gli alunni continuino a lavorare all'innovazione. Presenta una cheesecake al cocco con caramello salato di pane vecchio e mele cotogne crude: “per ottenere questi aromi abbiamo lavorato con tre diversi enzimi”. Ma l'avanguardia passa anche per il lavoro della terra e dell'orto e un approccio che si basa su principi di sostenibilità e zero sprechi: “lo studente deve imparare a lavorare la terra” fa Luis Arrufat “per lavorare con un prodotto che ha creato fin dall'inizio, chiudendo un cerchio”. Il futuro? Passa per il valore organolettico, la sostenibilità, la salubrità.
Parola chiave: cambiamento. La squadra, il divertimento, il menu
Emozionato, Alex Átala, quando racconta del ritorno al D.O.M. dopo quasi 2 anni di chiusura, nei quali non si sapeva se e come i ristoranti avrebbero riaperto. “È stato durissimo” dice, semplicemente. Al momento di riaprire le porte, è mancato il coraggio. Allora è stato il suo team a dargli l'energia necessaria e, dopo mesi a riflettere sui nuovi menu, è stato di nuovo il suo team fare la proposta giusta: “una cucina ricca di amore, tradizione, ingredienti semplici ma carichi di significato” come la manioca; “per la prima volta in 20 anni, il mio ristorante non era più mio, ma di tutta la squadra. Ho capito che l'ingrediente principale in un ristorante è il gruppo di lavoro”. Oggi Atala fa un passo non indietro ma di lato: “Non lascio le cucine né vado in pensione. Sono uno chef e continuerò a esserlo, faccio solo un passo di lato per lasciare che la mia squadra guidi il posto. Ora D.O.M. Appartiene alla mia squadra". Il valore umano, dunque: “La qualità del prodotto non ha importanza se non ti circondi di persone valide, perché sono loro la cosa davvero importante”. La necessità, in un presente così colpito dalla pandemia, è rivolgere i riflettori su una cucina più solidale, sostenibile e umana, in cui ritagliarsi un nuovo ruolo: “Voglio evolvermi come chef, e penso che ora servo più dietro, lavorando per formare cuochi e professionisti migliori, affinché D.O.M. essere domani meglio di oggi. E se non lo è, la colpa sarà mia”.
Parola chiave: Divertimento. È questa la chiave della svolta del Nerua (Bilbao). Lo dice in apertura di congresso Josean Alija aggiungendo che fondi e prodotto rimarranno elementi chiave. Per una cucina a tutta “semplicità, sapore e gusto, essenza e temporalità”.
Che oggi gioca la carta della condivisione, come nella frittata di asparagi bianchi, kokotxas e fiori di zucca, mantenendo sempre al centro della propria tavola il prodotto locale - come il peperoncino di Erandio, narratore del territorio, “dove il territorio è ciò che ci definisce, è l'essenza della nostra cucina” – le strutture, come quelle del cardo il salsa nera. Tutti piatti semplici, con i suoi famosi brodi “in cui distilliamo i nostri sogni”. La materia prima lavorata con eleganza e una mano tutta tecnica e sensibilità: “siamo sempre stati ossessionati dalla disciplina”, che adesso si concede al divertimento.
I piatti e i menu sono i protagonisti di molti interventi. Del resto quella spagnola è e rimane una scuola di grande tecnica contemporanea, dove esperimenti e prove sono il pane quotidiano, tanto che il grande Pedro Subijana spiega che al Akelare il 90% delle prove non entra in menu, perché ritenute non all'altezza. “Avrei potuto parlare di molte cose, su questo palco” fa Eneko Atxa (Azurmendi) “ma questo è quello che facciamo”. E questo è un'infilata di piatti che raccontano, in 30 minuti appena, il nuovo menu di Azurmendi.
Con il cambio stagione entra una nuova carta: “perché la nostra cucina si basa sulla terra e sui suoi prodotti” pur nella chiara impronta ad alto tasso di tecnica e ricerca tipica ispanica (lì il collagene la fa da padrone). E di quella terra rende un'immagine viva a partire dai primi assaggi in menu, serviti nel giardino interno in un cestino da pic nic a suggerire un atteggiamento rilassato, a stretto contatto con la natura. Il resto è un carosello a ritmo serrato di fiori, polline, semi, foglie, erbe aromatiche, bocconi sfiziosi e omaggi ai piatti tradizionali – l'immancabile kokotxas pil pil che, spiega “è un privilegio poter lavorare” o la torta di baccalà con la tipica textura – composizioni mimetiche elegantissime che spingono forte sull'acceleratore. È lui uno dei grandi nomi baschi, il più giovane, cui va in consegna il non semplice compito di portare questa cucina verso una nuova tradizione.
a cura di Antonella De Santis