È il salone del formaggio artigianale italiano con cui ogni anno Vincenzo Mancino (padre di Dol – Di Origine Laziale, unico format di distribuzione-valorizzazione delle produzioni regionali) porta a Roma le migliori espressioni casearie delle Penisola, da Nord a Sud. Parliamo della due-giorni di Formaticum, iniziativa (in collaborazione con La Pecora Nera Editore) che propone l’assaggio e il contatto diretto con prodotti e storie da un’Italia introvabili nei siti main stream.
Storie che disegnano la mappa di un’agricoltura di nuova generazione che parte dalla cultura rurale di questo Paese e la rilancia verso un futuro fatto di sostenibilità, attenzione all’ambiente, conoscenze tecniche e tecnologiche e passione, tanta passione, in un mondo che esalta la velocità e la logica del prezzo e del consumo facile rispetto allo spessore e alla consapevolezza di cosa si mangia. «Se non cambia qualcosa, tra pochi anni finirà tutto questo – si indigna Mancino – Io faccio Formaticum solo nel tentativo di fare capire qual è il mondo che finirà, cosa non potremo più assaggiare, qual è la ricchezza della nostra Italia. La spina dorsale di questo Paese si sta spezzando».
![conciato san vittore](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-ok-conciato.jpg)
Conciato di San Vittore, un superstite
Partiamo dalla “sesta storia”, quella che ha come protagonista lo stesso Vincenzo Mancino come baluardo di uno dei formaggi storici della campagna romana: il Conciato di San Vittore, realizzato con solo latte crudo di pecore locali secondo la ricetta originale lasciata da Teodoro Vadalà, casaro calabrese approdato nel Lazio che Vincenzo convinse a condividere la sua conoscenza e addirittura ad andare tra i detenuti di Rebibbia per insegnare loro a produrlo in un piccolo caseificio solidale all’interno del carcere. Oggi il Conciato originale viene prodotto a Torrita Tiberina nel caseificio AgriIn della famiglia Deroma in partnership con Mancino e Dol che lo distribuisce. La particolarità più identitaria – a parte il latte crudo che viene da animali che pascolano e dunque mangiano solo essenze legate al territorio di origine – è nella concia, ovvero il trattamento con cui si prepara la forma ad evolvere nel tempo senza essere aggredita da insetti e batteri nocivi: è a base di erbe aromatiche spontanee e coltivate tra cui salvia, ginepro, rosmarino, finocchio selvatico, coriandolo e anice. La conciatura è una tecnica molto complessa che deve essere eseguita con grande attenzione e precisione e con strumenti di legno, come la frasca. Un procedimento che dona al formaggio aromi e sapori del tutto particolari e unici. Assolutamente da provare.
![conciato san vittore](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-ok-conciato-di-san-vittore-670x0-90.jpg)
I 5 assaggi da non perdere
Nel salone di Formaticum all’interno dell’ex Mattatoio di Testaccio a Roma, abbiamo poi selezionato 5 assaggi e 5 storie da conoscere per capire davvero cosa intendiamo quando parliamo di formaggio artigianale e del suo legame con il territorio. Storie che possono anche essere la base teorica per un “vero” rilancio qualitativo della nostra agricoltura nella chiave di tutela e recupero di ambiente e di identità.
![chalet del formaggio](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-ok-chalet.jpg)
Teresa (primo piano) e Angela Pecchia. In apertura, Michela Bunino mostra la foto del pastore Antonio con cui fanno filiera chiusa
Chalet del Formaggio
Avella (AV)
Teresa e Angela Pecchia sono due sorelle, rispettivamente di 28 e 22 anni, che portano avanti l’azienda agricola dei nonni nella patria delle nocciole (il nome del frutto, infatti – corylus avellana – viene proprio da qui). Siamo nell’Appennino Campano, tra i monti del Partenio, dove secoli e secoli di storia si sono intrecciati e dove la modernità ha portato però impoverimento e sradicamento. Qui, nel passato, la pecora ottomana si è incrociata con la razza locale: nasce la razza Turchessa, una pecora con la testa nera e la coda grassa come la Laticauda, a duplice attitudine (carne e latte) che i nonni di Angela e Teresa cutodiscono e tengono in vita, tanto da essere la loro – insieme a quella dello zio – l’unica famiglia ad allevarla. Dal 2013 soltanto, però, i genitori delle due sorelle decidono di investire tutto qui e cominciano a trasformare il latte che fino ad allora vendevano a caseifici della zona. «Una scelta che ci ha “obbligate” a restare in azienda – sorride Teresa – Nel 2018 siamo riusciti a far riconoscere la Turchessa e a inserirla nell’elenco delle razze italiane, una razza a rischio di estinzione di cui sono rimasti in vita solo 1.800 esemplari, i nostri. Speriamo però che il suo allevamento possa riprendere, visto che i formaggi dal suo latte ora rientrano anche nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (PAT)». La Turchessa produce “poco”, appena un litro al giorno: un latte che dà al formaggio tutto il bouquet dei pascoli in cui vive, immersi in un ambiente sub-mediterraneo che dona essenze particolari ed intense. «La Turchessa partorisce una sola volta l’anno – racconta Teresa – ma è stupefacente la resa del suo unico litro di latte quotidiano: arriva al 30% a differenza della normale resa del latte ovino che si aggira intorno al 18-20 per cento. Quando i responsabili del settore agricoltura della Regione sono venuti a fare i loro controlli qui, sono rimasti impressionati da questo dato e pensavano che fosse una truffa. Poi hanno toccato con mano la realtà!».
Il formaggio è il pecorino tradizionale prodotto con la ricetta della nonna. «Da circa tre anni, però, abbiamo imparato le diverse tecniche di affinamento – spiegano le sorelle Pecchia – E così abbiamo a unire il sapore deciso del nostro latte a quello di prodotti particolari come vinaccia, pepe, frutti rossi, rucola…».
Un’arte che Teresa e Angela hanno cominciato a imparare e a praticare, spingendosi anche oltre a sperimentare la realizzazione di taleggio e brie di pecora – ancora in fase di elaborazione – e di un caciocavallo ovino – a pasta filata – che invece dovrebbe arrivare presto sul mercato. Noi lo aspettiamo con trepidazione.
![Carlo Mazzoleni_ Storico Ribelle](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-ok-carlo-mazzoleni-storico-ribelle.jpg)
Storico Ribelle
Gerola Alta (SO)
Bitto. Non si può pronunciare questo nome se parliamo di Storico Ribelle, eppure questo vero e proprio “monumento al formaggio di alpeggio” è la materializzazione di quello che era il Bitto un tempo, prima della decisione di allargare e di molto le maglie della Dop lombarda e da spingere questo manipolo di affinatori e produttori a sfilarsi e a mantenere in vita la cultura di questo antico formaggio valtellinese della Valle del Bitto.
Lo Storico Ribelle è nome ben noto ai cultori del formaggio tradizionale. È stato anche protagonista di polemiche e battaglie storiche, da quella appunto con il Consorzio del Bitto da cui nel 2016 si sono completamente separati (perché non accettavano che la denominazione fosse stata estesa a tutta la provincia e che si permettesse di allevare le mandrie con mangimi per la produzione di Bitto), allo “scandalo” che fece qualche anno fa la vendita di una forma di 13 anni a 300 euro il chilo. «Ma di cosa c’è da stupirsi? – si chiede Carlo Mazzoleni (in foto) dell’associazione – Parliamo di un formaggio prodotto solo quando le bestie sono in alpeggio, di latte lavorato in montagna entro un’ora – al massimo – dalla mungitura, di forme che vengono poi selezionate per essere affinate: ognuno di questi formaggi è un’opera unica, ha la sua identità e la sua vita: la stagionatura dipende da come la forma evolve nel tempo, ognuna è una storia a sé». La produzione si attesta ogni anno intorno alle 800-1.000 forme al massimo: l’associazione dello Storico Ribelle le raccoglie a circa un mese-un mese e mezzo alla produzione e lo porta a maturazione nella “casèra” in cui confluiscono tutte le produzioni dei 12 produttori che conferiscono qui, nel borgo di Gerola Alta (SO) che vengono acquistate mediamente a una cinquantina di euro/chilo (più del doppio di quello standard).
Il modo migliore per capire il cuore di questo cacio di montagna è la degustazione comparata: da provare nelle tre annate più disponibili come ad esempio la 2019, 2021 e 2013. È un percorso gustativo che accompagna dal gusto più immediato e conviviale del cacio più “giovane” fino alle punte aromatiche, di sapidità e di fragranza e scioglievolezza di quello più anziano. Si sentono – a intensità, concentrazioni, pungevolezza diverse – le erbe di montagna che mangiano le mucche e che l’attività enzimatica legata al tempo porta ad evolvere.
La Bersagliera
Campagna (SA)
Antonino e Vitantonio Perrone sono i due “sacerdoti” della Podolica campana da cui nasce un caciocavallo (anzi due, uno di collina e uno di montagna, assolutamente diversi) che difficilmente si può trovare in circolazione. L’uscita autostradale sulla Salerno-Reggio Calabria fa scorrere dai finestrini un territorio particolarmente brutto e insignificante, ma basta addentrarsi e salire un po’ per arrivare in un mondo unico. «La Bersagliera sorge a ridosso del Monte Polveracchio con i suoi 1.800 metri di altitudine, ma le nostre 200 vacche durante la stagione fredda pascolano in collina, più sotto, a circa 300 metri sul mare – racconta Antonio – Noi pratichiamo la transumanza, come una volta: ci spostiamo dai comuni di Battipaglia ed Eboli fino alla cima del Polveracchio, in estate: qui nasce il caciocavallo di montagna, di solo latte di alpeggio». L’azienda dei fratelli Perrone è l’immagine di cosa significhi “benessere animale” nel vero senso del termine e non ai soli fini di marketing. Tanto che probabilmente anche un vegano farebbe fatica a dargli eticamente contro per la produzione di formaggio: «Qui il ciclo biologico viene rispettato – spiega Antonio (foto) – Non togliamo il vitello alla madre e al suo latte. Lo allontaniamo solo la sera e la mattina lo rimettiamo sotto alla madre, così che stia in sua compagnia e possa nutrirsi col suo latte. Facciamo un po’ per uno!»
Questo caciocavallo è la dimostrazione didascalica di quanto possa far differenza la diversità di pascolo e di ambiente per il latte: ci sono essenze e fioriture diverse e con diverse concentrazioni e intensità aromatiche, in inverno c’è anche un minimo di integrazione alimentare, Il pascolo fa la differenza. L’erba di montagna è più concentrata e ricca». Sono entrambi due grandi prodotti che si propongono con profumi e sapori netti e decisi, più rotondo e dolce quello di collina, più muscoloso e concentrato col suo colore giallo vivo, quello di montagna che mostra un’evoluzione più marcata e spinta anche se ha diversi mesi in meno dell’altro.
Antonio è un imprenditore agricolo colto ed evoluto, ha piena consapevolezza del suo lavoro e del valore dei suoi prodotti. Ma a pochi giorni dalla bufera infuocata delle proteste e delle rivendicazioni degli agricoltori, lui ha un solo pensiero per la politica e una sola domanda all’Europa. «Come è possibile parlare al tempo stesso di green deal e di allevamento intensivo?» Una domanda-ossimoro su cui dovrebbe riflettere e rispondere una Politica che voglia restare fedele al valore di governo nell’interesse della collettività e del bene comune e alla missione di immaginare un futuro possibile.
![Michela e NIcola al banco di Alba, a Formaticum](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-alba-inside--1024x768.jpg)
Alba Soc. Agricola
Campolieto (CB)
Michela aspetta che arrivi anche Nicola al banco dei formaggi. «Si, perché la nostra p una storia a due e non posso raccontarla senza la sua vicinanza», fa Michela Bunino, 38 anni, laureata a Pollenzo in Scienze Gastronomiche: è lì, in Piemonte che si sono conosciuti e innamorati lei e Nicola Del Vecchio, entrambi studenti fuorisede, lei dalla Valpellice e lui dal Molise, dal profondo Sud dove poi insieme decideranno di vivere la loro Alba.
Perché Alba? Una citazione delle Langhe? «No. Alba era la nonna di Nicola: è lei che ci ha trasmesso gli 85 ettari dove adesso siamo noi. Ma anche perché qui per 365 giorni l’anno viviamo l’alba, il sole che sorge e che ci stimola a immaginare una nuova alba, quella del futuro, quella di un nuovo inizio». Una sorta di Sol dell’Avvenire, se non fosse linguaggio del passato e che oggi è (per fortuna?) più realistico e positivo chiamare Alba quell’aspirazione di vita in cui la “politica” coincide con il privato e con scelte di vita che poi incidono anche sul mondo circostante. «Alba è un’azienda a ciclo completamente chiusa – ci spiega Michela – È un esempio concreto di cosa sia oggi un’azienda Agroecologica, il modello che Nicola ha studiato e teorizzato a Pollenzo e a cui qui abbiamo dato corpo, tanto che siamo partner e anche sede didattica dell’Università piemontese». Lo start iniziale è stato per loro la produzione di extravergine legata al recupero degli oliveti abbandonati. Poi parte l’allevamento di pecore e capre: «Animali che qui hanno da sempre convissuto, perché mangiano essenze diverse sul campo e convivono in perfetto equilibrio con l’ambiente. Noi lavoriamo il latte prodotto per circa dieci mesi l’anno dalle nostre 250 capre e pecore, senza dividerlo, nel solco della tradizione molisana, e da cui nascono formaggi che quella storia raccontano: ne è simbolo e bandiera il cacio-ricotta», che unisce in una sola forma la lavorazione della cagliata e la ricottura del siero per la ricotta: un processo in cui si raggiungono gli 80-82 gradi per tenere insieme il tutto.
Il caseificio è a circa 750 metri di quota sul lago di Occhito, tra Molise e Puglia. Nel 2020, qui, i due mettono su anche un laboratorio di trasformazione delle verdure e della frutta prodotta in azienda. E dai cacio-ricotta e dalle caciotte miste tradizionali, arrivano a produrre anche altre tipologie come lo stracchino e le creme di formaggio, oltre ai barattoli di cacio-e-ova pronte e fatte con gli ingredienti prodotti in azienda. I formaggi sono tutti giocati sulle diverse acidità e freschezze, a partire dal cacio-ricotta per andare poi sulla robiola e sugli affinamenti particolari, condotti in partneship con un’azienda piemontese che coltiva fiori e germogli. «Avevamo due strade – racconta Michela – Affinare per dare un carattere nuovo a formaggio o accompagnare e valorizzare le essenze di cui si nutrono i nostri animali e che danno identità ai nostri formaggio». È evidente la scelta che hanno fatto Michela e Nicola. E si sente ampiamente nelle forme che propongono al mondo.
Ps. Da non perdere la crema di formaggio, composta da 80% di formaggio rustico grattugiato, unito a latte e olio extravergine e quindi stabilizzato con acquavite di vinaccia. Una delizia.
![Viola Marcelli - La porta dei parchi - abruzzo](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-ok-viola-la-porta-dei-parchi-anversa-abruzzi.jpg)
La Porta dei Parchi
Anversa degli Abruzzi (AQ)
Viola Marcelli si presenta mettendo avanti suo padre Nunzio: lui non c’è a Formaticum, ma la sua figura è talmente “ingombrante” che si può solo raccontarla e citarla subito per riuscire ad andare oltre. Nunzio (nella foto qui sotto), insieme all’amico Gregorio Rotolo (scomparso nel 2022 a soli 62 anni) è uno dei padri della Nuova Pastorizia abruzzese: sono stati loro a dare un volto nuovo e rigoroso alla narrazione e alla pratica della transumanza, alla possibilità che questa cultura identitaria del territorio potesse essere appetibile per le nuove generazioni e avere un senso nel futuro.
![nunzio-marcelli](https://static.gamberorosso.it/2024/03/1-ok-nunzio-marcelli.jpg)
Ne è plastica materializzazione la figlia Viola: 38 anni, “fuggita” prima per studiare e poi per lavorare tra Firenze-Milano-Roma-New York, rientra ad Anversa 9 anni fa. E decide che la sua esperienza può dare senso all’avventura avviata 35 anni prima dal padre e poi condivisa dalla madre che dalla Toscana si era trasferta qui per studiare i pascoli di un’area che era oggetto di studio e di tesi anche di Nunzio: è dalla loro unione e dalla loro passione che nasce l’azienda agrituristica cera e propria, concretizzazione di ciò che avevano in mente e prodromo a ciò che è ora: meta di pellegrinaggio di appassionati da tutto il mondo che si prenotano per tempo solo per poter trascorrere con i pastori l’esperienza della transumanza sui tratturi abruzzesi, tre volte l’anno.
«Sono stati loro, mio padre, Gregorio Rotolo e Giulio Petronio (entrambi morti nelle stesso anno) a far conoscere al mondo la nostra storia, quella della pastorizia come cultura identitaria di Abruzzo. Qui nasce, nel 1999, l’iniziativa Adotta una pecora: ci ha portati in paesi lontani come Usa e Giappone dove le nostre terre sono state raccontate in molti modi – racconta oggi Viola – Ora abbiamo un agriturismo che ha molte facce: esperienze rurali, macelleria per le carni e gli arrosticini di pecore e agnelli, il caseificio dove oltre alle tradizionali lavorazioni presamiche si sperimentano anche altre strade». Come quella, incantevole, del Marcetto: una rielaborazione in chiave moderna del formaggio coi vermi. Un sapore deciso e importante, dato dal pecorino di almeno tre anni grattugiato e unito a latte che torna a fermentare e a trasformarsi in una crema spettacolare, dolce e piccante insieme: appaga la bocca con un piccolissimo assaggio e la lascia incantata da note di frutta secca ed erbe di campo per almeno un’oretta; modo davvero spettacolare di terminare un assaggio, perché dopo per un po’ non ci sarà altra storia!