«Non ho mai cucinato in silenzio» è il motto di Davide Zambelli, giovane food creator trentino che, con le sue ricette semplici e veloci ha conquistato un ampio pubblico di giovani gourmet. Per lui la cucina è sempre stata convivialità, dalle prime preparazioni a casa dei nonni a quelle in famiglia: primo figlio di cinque, ha trovato in garage il suo spazio di tranquillità. E proprio da lì è iniziata la sua avventura che oggi raggiunge 400mila follower su Instagram e altrettanti suo YouTube. Il suo sogno futuro? Aprire un suo ristorante. Intanto, ha scritto un libro, Un po’ più su. La mia cucina di montagna (per tutte le stagioni), dove racconta la sua passione in 80 ricette, dai canederli ai pizzoccheri, dal gulasch all’insalata di tarassaco, passando per le polpette di trota e patate al gelato fiordilatte, fieno e corteccia. Il fil rouge? La semplicità, come spiega lui stesso in questa intervista.
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Che tipo di cucina è quella di Davide Zambelli? Come spiegarla a chi non la conosce?
Una cucina molto semplice che arriva diritta al punto. Genuina con ingredienti facilmente reperibili. Direi anche giovane e facile da replicare. Una cucina amica che vuole andare incontro alle esigenze di tutti, anche di chi segue un regime alimentare alternativo.
C’è un messaggio che vorrebbe arrivasse attraverso i suoi piatti?
Mi piace l’idea che le persone possano percepire la natura ad ogni assaggio.
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Un ingrediente che non manca quasi mai dalle sue preparazioni?
Direi il cumino dei prati che esalta la nota tirolese. È una spezia che si trova soprattutto nelle zone alpine e che, rispetto al cumino tradizionale, si presenta più erbaceo e meno intenso. Simile al finocchietto, mi piace metterlo sia nel gulasch, sia nel pane, ma anche nei dolci per dare delle note aromatiche.
Olio o burro?
Mi piacciono entrambi, ma probabilmente direi burro perché ci sono cresciuto. Soprattutto per i dolci.
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Dolce preferito?
Adoro i dolci speziati, come i cinnamon rolls. In generale dolci non troppo cremosi, speziati, dove l’elemento burroso si senta in modo netto.
Dal suo libro si percepisce una grande passione per le erbe di montagna. Da chi l’ha ereditata?
Da mia mamma, che mi ha insegnato come la natura possa essere assaporata non solo col palato ma anche attraverso la cosmesi: lei è specializzate in piante officinali. Mi piace l’idea che la gente, quando ne ha l’occasione, vada a fare la spesa nei prati.
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Invece, da chi ha imparato a cucinare?
Ho imparato da mio nonno che, rimasto invalido, iniziò a dedicarsi ai lavori di casa, mentre nonna andava a spaccare la legna. La sua era una cucina che si discostava dalla cucina povera trentina. La domenica, quando andavo a trovalo, mi chiedeva di aiutarlo ai fornelli, soprattutto con i ravioli. All’inizio per me era una forzatura, ma a poco a poco fui io stesso a chiedergli di cucinare assieme.
E qual è il piatto che lo riporta a quel periodo?
Pasta fresca all’uovo, frutto delle frequentazioni del nonno con alcuni colleghi emiliani, ma ripiena di prodotti trentini, come luganega e formaggio grattugiato. Un misto di culture, quindi. Nonostante la mia famiglia fosse al 100% trentina, nonna in paese veniva chiamata la tajarola (da tagliatella) perché mangiava la pasta fresca invece della tipica polenta delle nostre parti.
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Lei abita ancora nel paesino?
Sì, un paesino di pochissimi abitanti in Val di Sole. Mi piace alternare la foga di interesse che può regalare la città alla vita in relax tra le montagne che mi regala quiete, serenità, relax… e le erbe aromatiche di cui sopra.
Nel suo percorso lavorativo, quanto deve alla Prova del Cuoco?
Dopo la Prova del cuoco ho capito che potevo portare la Tv a casa mia, attraverso Youtube. Così, unendo il gruzzoletto della vincita ai risparmi frutto del mio lavoro in vari ristoranti, ho allestito una piccola cucina televisiva in garage e sono partito con i video. Avevo bisogno di un posto adatto, dove stare tranquillo, anche perché a casa mia siamo in sette. All’inizio è stato difficile ingranare, ma a poco a poco i risultati sono arrivati, soprattutto nel periodo Covid.
Il garage c'è sempre?
Sì, anche se a poco a poco ho iniziato ad andare fuori per far vedere il paesaggio circostante. Il format attuale prevede che cucini all’interno per poi fare la spiegazione dei piatti in esterno: un mix tra comodità e fascino della natura.
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C’è uno chef che ammiri in modo particolare o a cui ti ispiri per la tua cucina?
Mi piace molto Yotam Ottolenghi. Poi adoro Alessandro Gilmotti perché lavora tanto con le erbe selvatiche e la natura.
Anche lei frequenta i grandi ristoranti?
Mi piace andarci per cogliere qualcosa, incuriosirmi, capire che direzione stanno prendendo. E, poi, mi piace portare quello che ho scoperto nei miei contenuti che siano social, video o ricette.
Quindi, il fine dining non è morto?
Quello che noto è che alcune cose stanno cambiando. La presentazione dei piatti è sempre più minimal e più pulita. Sono scomparse tutti quegli orpelli che una volta servivano solo ad arricchire il piatto. Probabilmente il cliente è stanco degli elementi troppo impegnativi che non servono davvero.
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Visti il suo linguaggio e i suoi piatti semplici e diretti, se dovesse dare un consiglio ai grandi chef su come attirare i nuovi consumatori, cosa direbbe?
Addirittura un consiglio? Direi più sapore, meno scenografia. Le persone vogliono essere colpite dalla semplicità. Secondo me il “wow” dovrebbe arrivare non quando vedi il piatto, ma quando lo assaggi. Probabilmente il segreto è trovare il punto di equilibrio tra estremismo e semplicità. Un menu che ti stupisce, ma accompagnato dalla concretezza.
Un suo sogno-progetto futuro?
Mi piacerebbe pensare ad un locale tutto mio per far assaporare quello che faccio, un bistrot che sappia stupire con la semplicità, senza rinunciare alla parte dello show culinario. Devo capire se ha più senso portare la mia cucina fuori dal contesto della mia valle o restare in valle per portare la gente a scoprirla. Allo stesso tempo, però, non vorrei rinunciare alla parte della comunicazione sui social o in tv. Vedremo…
Ci stupisca con una ricetta veloce ed inclusiva.
Una bruschetta di montagna che richiama il mio territorio e che si rifà ad un abbinamento tradizionale: carne salada e fagioli. Al posto del pane, rosti di patate fritte per dare croccantezza. Sopra crema di fagioli cannellini al limone e scalogno. E al posto della carne salada, cavolo cappuccio croccante condito con citronella, olio, cumino e pepe nero. Un piatto che richiama il territorio in cui vivo ma che può essere mangiato anche da vegani e celiaci.