In nome del decoro e della qualità. I precedenti
Riappropriarsi dei centri storici, valorizzandone cultura, prospettiva temporale, funzione sociale. E destinazione d'uso. Da tempo Dario Nardella e la città di Firenze sono diventati il simbolo di un'Italia che vuole far fronte comune, almeno nelle intenzioni, sulla tutela di un patrimonio che accomuna tessuti urbani anche molto diversi tra loro, ma sempre testimonianza di un legame profondo con il territorio e le tradizioni artigiane e commerciali che raccontano la storia del BelPaese. E allora nel capoluogo toscano prima è arrivato il vincolo di identità territoriale per gli imprenditori interessati a ottenere una licenza di ristorazione, con tanto di commissione deputata a valutare la bontà dei progetti sottoposti al Comune. Il provvedimento faceva appello al regolamento Unesco approvato solo qualche mese più tardi (nella primavera 2016), che vietava l'esercizio di attività incompatibili con il decoro e l'immagine della città nelle aree tutelate da vincolo culturale. Kebabbari, minimarket, fast food e specchietti per le allodole acchiappaturisti in primis. Da lì ad arrivare alla dibattuta questione Mc Donald's in piazza Duomo c'era voluto poco, con code polemiche e inevitabile gioco delle parti, tra i difensori della patria a oltranza e i possibilisti aperti alla mediazione.
La normativa nazionale salva centri storici
Poi, alla fine del 2016, il dlg Scia 2 presentato dal ministro Madia nell'ambito della riforma della Pubblica Amministrazione, la cosiddetta norma salva centri storici esordiva su scala nazionale, garantendo ai sindaci la facoltà di vietare l'esercizio di attività commerciali “non compatibili con le esigenze di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale”, quando in presenza di aree “di particolare valore storico, archeologico, artistico e paesaggistico”. Lasciando di fatto ampia discrezionalità ai primi cittadini, che in accordo con le soprintendenze, acquisivano mandato per adottare regolamenti in merito (non retroattivi), sull’esempio di quanto il Codice dei Beni Culturali già stabiliva in materia di ambulanti. A Firenze, per esempio, il 2017 si è aperto con l'inasprimento delle posizioni di Palazzo Vecchio: è di pochi giorni fa l'approvazione della delibera di modifica al regolamento Unesco che prende le mosse dell'iniziativa del nuovo assessore allo Sviluppo Economico Cecilia Del Re per imprimere un altro giro di vite al proliferare di minimarket e ristoranti nel centro della città.
Stop alle nuove aperture. La fase 2 di Firenze
E in attesa dell'ok del Consiglio Comunale, l'idea mostra il suo limite nell'intransigenza del metodo (a patto che sarà possibile farlo rispettare): stop per tre anni all'apertura di nuovi ristoranti e attività che producono e somministrano cibo in tutto il centro di Firenze. E, a seguire, il divieto di trasferire attività già aperte dentro l'area Unesco in alcune piazze riconosciute di particolare interesse, da Santa Croce a Santo Spirito, dal Carmine a Pitti, in quanto “principale luogo di aggregazione sociale e simbolo dell'identità della città”, ribadisce la Del Re. Risultato? Per ora gli uffici preposti sono praticamente invasi dalle pratiche di tutti quegli imprenditori che in vista del giro di vite si affrettano a richiedere la Scia, per aggirare l'entrata in vigore effettiva della delibera.
Venezia. Stop a fast food e kebab, graziate le gelaterie
Ma intanto anche Venezia si muove nella direzione indicata da Firenze. Negli ultimi giorni la Giunta ha approvato una delibera che limita l'esercizio di attività non compatibili “con le esigenze di salvaguardia del decoro e delle tradizioni di Venezia”, in tutto il centro (la città è patrimonio Unesco del 1987) e sulle isole di Burano e Murano. Con particolare riferimento alle attività di vendita e produzione di prodotti alimentari “finalizzate a consumo su pubblica via”. E quindi soprattutto kebabbari e pizzerie a taglio che invadono le calli di molti sestieri. Ma non finisce qui, perché analogamente a Firenze, anche l'assessore al commercio veneziano Francesca Da Villa ha intenzione di vietare l'apertura di nuove attività di somministrazione e produzione di cibo, a eccezione, si precisa nella delibera, delle gelaterie artigianali. In attesa che il provvedimento riceva approvazione definitiva, anche in questo caso una perplessità sorge spontanea: partendo dal presupposto che la definizione di gelateria artigianale è ancora una delle più controverse del mercato alimentare italiano – il vincolo di produrre in loco non impedisce di usare polverine o simili, per esempio, rivelandosi di fatto non sufficiente a garantire la qualità del gelato – perché la normativa mira a salvaguardare solo questa categoria merceologica? E più in generale, ha senso bloccare tout court gli investimenti nella ristorazione, compresi quelli virtuosi? Perché si possa davvero parlare di tutela della qualità e salvaguardia del decoro bisognerà precisare (più di) qualche punto. Ce lo auguriamo.
a cura di Livia Montagnoli