Pina Belfiore, per venti anni senior ispettrice per la guida Michelin (Nord-America), antropologa culturale e ora consulente e mentor nel campo della ristorazione, arriva a New York all’età di dieci anni da Piedimonte etneo, il comune siciliano ai piedi del vulcano Etna. Dopo la laurea in antropologia culturale e un master in Food Studies alla New York University, inizia a lavorare per Disney/ABC Television. Nel 2005, il suo debutto ufficiale come ispettrice Michelin, dove ha lavorato per venti anni.
In questa intervista, l’ex ispettrice, condivide parte della sua esperienza e alcune riflessioni sulla ristorazione americana e sui cambiamenti della celebre "Rossa", senza rinunciare allo sguardo attento verso l’Italia, suo paese natale. E ci ricorda i criteri e i principi che guidano gli ispettori all’assegnazione della stella.
Qual è il bilancio personale e professionale di questi 20 anni alla Michelin?
Lavorare come ispettrice è stato molto più di un lavoro: è stato un sogno, una vocazione, una straordinaria e divertente esperienza. È molto di più che valutare il cibo tecnicamente: questo lavoro richiede un approccio culturale e una curiosità non indifferente. Il fatto di essere un’antropologa culturale mi ha permesso di interpretare il cibo sotto il profilo culturale, unendo gli studi alla pratica. Tuttavia, la parte più difficile è stato trovare un equilibrio tra il viaggiare in continuazione ed essere una madre single a New York. Ma la vera sfida è stata quella legata alla salute: mangiare in un contesto come questo, mette il corpo continuamente sotto sforzo.
Come è cambiata la Guida Michelin negli anni?
Come annunciato e voluto da Gwendal Poullenec, global director della guida, negli ultimi cinque o sei anni, la guida ha iniziato un'espansione in tutto il mondo. Ora ci sono quasi 17.500 ristoranti, da Abu Dhabi al Vietnam. L'approccio è diverso dal passato. La guida ha iniziato a lavorare a contatto con le istituzioni nel mondo del turismo, con le singole città e si avvale anche di sponsor aziendali. Questo non dovrebbe destare scandalo perché il costo per produrre una selezione di ristoranti è elevato: tutti gli ispettori sono dipendenti a tempo pieno, ci sono così tanti viaggi e spese di trasferte, per non parlare dei pranzi e le cene che la Michelin copre interamente. Ritengo che questo nuovo approccio sia corretto e che il costo dovrebbe essere condiviso. Rimane sacra ed essenziale l’esistenza di paletti che garantiscono l'assoluta indipendenza degli ispettori. Capisco anche le critiche al nuovo approccio da parte dei media e della stampa, ma non c'è davvero altro modo per coprire le numerose "destinazioni" senza finanziamenti aggiuntivi. L'altro grande cambiamento è stato il passaggio al digitale e la app Michelin. Infine, l'attenzione alla sostenibilità con l’introduzione della Stella Verde.
Non sono cambiati però i criteri che guidano la selezione dell’ispettore?
Nulla è cambiato per quanto riguarda l'approccio dell'ispettore, l'attenzione è ancora sui cinque principi: qualità degli ingredienti utilizzati, padronanza delle tecniche di cottura, armonia dei sapori, "personalità" dello chef. È molto importante la coerenza del menu tra una visita e l'altra. Infine, indipendentemente da cosa sia cambiato in termini finanziari, la guida rimane una selezione e non un elenco. In definitiva, l'enfasi di Michelin sull'anonimato è nata per garantire che l'esperienza culinaria sia coerente e rifletta la qualità abituale del ristorante, indipendentemente dalla presenza o meno di un ispettore.
Cosa conta davvero per ottenere la terza stella?
Personalità. Poter riconoscere immediatamente chi c'è dietro un certo piatto. Cito la chef italo-irlandese Angela Hartnett, che una volta disse: “la prima stella riguarda esclusivamente il cibo, la seconda ha a che fare con il ristorante e lo chef che deve dare il meglio di sé, mentre la terza stella- vedi Ferran, Heston, Gordon- tre chef diversi, ti consente di identificarli attraverso il loro cibo".
Una certa critica al lavoro della Michelin è stata quella di aver spostato troppo il focus sugli chef.
Non sono d'accordo, la guida ha e continua ad assegnare la stella al ristorante, non allo chef. Chiaramente è fondamentale la visione, il background dello chef.
Il fine dining è davvero in crisi?
No, il fine dining non è in crisi. Tuttavia, il successo di un locale di alto livello è determinato dal mercato. Ad esempio, avere successo economico a New York è molto difficile ma poi c’è l’esempio della ristorazione coreana di alta qualità, che ha avuto e continua ad avere successo, per non parlare degli ultra-private dining clubs! Ma vedo un abisso tra i ristoranti di fascia alta e quelli di fascia bassa ultra casual: entrambi però domineranno nel futuro mentre quelli di fascia media avranno tempi molto difficili. Non vedo però una crisi del fine dining perché ci sono molti consumatori disposti a viaggiare e pagare tanto. Allo stesso tempo, gli chef stanno anche sperimentando un modo diverso di essere fine dining pur mantenendo una qualità alta: un menu più accessibile in sala per poi stupire i clienti con lo chef’s table (ovvero lo chef’s counter). Noto anche chef stellati che lavorano con altri in format pop-up dove vengono offerti menu speciali.
Negli Stati Uniti, dove vivi, quali sono i cambiamenti nella ristorazione?
Il cambiamento più grande e importante è la richiesta di prodotti e materie prime di qualità, stagionali, perché i clienti sono ora più consapevoli e hanno un approccio più etico grazie anche alla cultura dei mercati del contadino nelle grandi città. La qualità dei frutti di mare ha fatto enormi progressi in alcuni dei mercati più importanti e la tendenza omakase continua inarrestabile. Negli Stati Uniti però, il Covid ha avuto un impatto significativo nella ristorazione: era impossibile sopravvivere in città come New York, Washington o Los Angeles. Infatti, molti ristoranti hanno chiuso. Allo stesso tempo, altre città sono emerse nella scena culinaria come St. Louis o Nashville per non parlare di Little Rock in Arkansas, o della penisola superiore del Michigan o della Hudson Valley a New York. Improvvisamente, c'è un vero talento culinario sparso in tutto il paese.
Molti criticano che la cucina italiana negli Stati Uniti non sia stata ben rappresentata nelle guide
Per rispondere a questa critica è meglio analizzarla da antropologa culturale sottolineando che il problema va ben oltre il ruolo della guida Michelin. La cucina, quella che molte pubblicazioni rispettate chiamano italiana, è chiaramente italo-americana. In più, la cucina italo-americana di New York è diversa da quella di New Orleans, San Francisco, Dallas o Philadelphia, o Boston, Chicago, St. Louis, È molto difficile e scoraggiante, se non impossibile, fare ordine negli Stati Uniti tra tutte le convinzioni consolidate nei consumatori, i piatti che si aspettano, i sapori che sono radicati nella loro memoria del gusto. Inoltre, la cucina è stata definita da non italiani.
Che intende?
Non cadiamo nella tentazione di addossare agli immigranti le colpe di un'epoca passata, quando i ristoranti venivano aperti utilizzando ingredienti disponibili nell'era pre-globalizzazione. Cerchiamo di concentrarci sul presente. L'Italia con i suoi prodotti spettacolari e unici, la cucina regionale, oggi non sostiene i tanti chef sparsi in tutto il mondo come ha fatto il governo sudcoreano con la sua iniziativa "Gastrodiplomacy", grazie alla quale tutti possono conoscere l’autentica cucina coreana in tutto il mondo? Si, la cucina italiana negli Stati Uniti, non è molto ben rappresentata. Nei miei venti anni di lavoro da ispettrice Michelin abbiamo fatto del nostro meglio per selezionare alcuni dei ristoranti più rappresentativi. Alla fine, solo una manciata di ristoranti italiani ha ottenuto la stella- alcuni veramente autentici e rappresentativi della cucina italiana.
Ad esempio?
Uno dei miei preferiti è stato Del Posto sotto la guida dello chef Mario Batali, ma anche Quince dello lo chef Michael Tusk, Rezdora con lo chef Stefano Secchi, Masseria con lo chef Nick Stefanelli, Fiola e lo chef Antonio Mermolia, Gucci Osteria a Beverly Hills. Al momento, apprezzo quello che sta facendo Torrisi a SoHo NYC. Penso che ci sia un talento infinito ma mi chiedo perché per conoscere la cucina italiana gli americani devono guardare "Big Night" con Stanley Tucci o "Dinner Rush" con Danny Aiello? Vorrei aggiungere che la Guida Michelin in Giappone conta circa 90 ristoranti italiani dove molti chef (anche se giapponesi) hanno studiato con chef esperti in Italia. Lo stesso si può dire di altri ristoranti italiani stellati nel mondo ma non negli Stati Uniti, non molto.
Qual è la cucina del futuro e quali sono le tendenze che negli Stati Unit dobbiamo tenere sott'occhio?
Per le tendenze del prossimo futuro, la politica e le politiche contano, soprattutto con un'amministrazione nuova. Ciò che è chiaro è che il futuro negli Stati Uniti sarà sempre più incentrato sulla valorizzazione della regionalità americana: gli ingredienti indigeni della penisola superiore del Michigan, il grano e il mais, di origine antica, in regioni come Texas, Arizona, New Mexico; la storia africana e i suoi prodotti frutto della cosiddetta Gullah-Geechee connection tra la Georgia e l’Africa occidentale. C'è un enorme movimento in corso sull'agricoltura rigenerativa, c'è una nuova attenzione per la salute e la dieta e per le produzioni nazionali, come i nostri formaggi che stanno guadagnando attenzione e popolarità anche fuori dagli Usa. Se il paese inizia a prendere consapevolezza e sfruttare le risorse agroalimentari e gastronomiche, questo potrebbe avere un impatto mondiale.
Qual è la regione italiana che dovrebbe avere più attenzione?
La Calabria, un vero e proprio gioiello. È difficile spiegare cosa mi accade quando assaggio alcuni piatti preparati con vera arte, un'arte che nasce da millenni, dalla storia dei contadini ma anche dalla cura e dall’orgoglio. Per non parlare del pane, i sottaceti, l’olio, i tuberi, i formaggi, la selvaggina (il cinghiale, per esempio). I frutti di mare sono stati i meno impressionanti ma il resto è incredibile.
Dopo la tua carriera alla Michelin, che esperienza vuoi condividere?
Mi piacerebbe molto condividere l'esperienza che solo il "fine dining" può offrire, ma vorrei farlo in qualità di consulente e mentor. Quest'ultimo è davvero importante per me, in quanto è di aiuto e servizio ai tanti chef e alle cucine italiane, con l'obiettivo di costruire una comunità di fornitori, di servizi, prodotti e dipendenti. Come presentare e difendere la vera cucina italiana? È su questo che spero di dedicarmi del tutto. Ho viaggiato in tutto il mondo mangiando nei posti più incredibili della terra, il mio cuore, tuttavia, batte per l'Italia e per i suoi meravigliosi prodotti e cibo.