I bistrot respirano, i discorsi che s’incrociano sono pieni di illusioni e delusioni, desideri e paure, speranza e dubbi. “Insomma, per dirla tutta d’intelligenza”. Il bistrot è il teatro della vita, ci ricorda Marc Augé, la geografia dei luoghi dove amiamo mangiare s’interseca con la mappa dei nostri ricordi: rivediamo incontri e discussioni, occhi che brillano, viaggi. Sentiamo lo scorrere del tempo tra piatti e bottiglie stappate. L’origine storica della parola bistrot, o bistro, è di origine incerta, evidenzia Augé. “Due sono le etimologie possibili: la prima è bistouille, che nel Nord della Francia designava a fine Ottocento una bevanda alcolica di poco prezzo oppure un caffè corretto con acquavite; la seconda è il russo bistro - presto! - reminiscenza dei cosacchi in transito a Parigi, assetati di vittoria e di alcol”. La commistione è la cifra, il bistrot non è un bar, non è un ristorante, non è un pub, ma tutte queste cose insieme.
Il potenziale emotivo del bistrot
Il suo potere attrattivo ha che fare con un potenziale emotivo, la percezione di poterne fare parte, anche solo per il tempo di un piatto. “Spesso, il bistrot risponde a un bisogno quanto mai urgente, immediato, di contatto. Entrando, si ha sempre l'impressione di un incontro possibile. È infatti un luogo che favorisce la comunicazione e lo scambio. Ai suoi tavolini è possibile intrecciare relazioni con gli sconosciuti di passaggio, oltre che con i camerieri e gli habitué. Anche quando è connotato socialmente per via del quartiere in cui si trova, il bistrot resta comunque un luogo in cui è possibile mescolarsi”. È uno spazio aperto su altri spazi, sulla strada e sulla vita, ed è il luogo ideale per coloro che vogliono sentirsi a casa propria e nel contempo altrove, insieme accolti e ignorati. Un buon bistrot, ci dice Augé, è quello che dà l'impressione di essere quasi a casa, una familiarità sfamiliarizzata, l'illusione di poter andarcene altrove pur restando nella comodità casalinga.
Tutto inizia e finisce intorno al bancone
Qual è l’essenza del bistrot? “In primo luogo, il bancone e soprattutto quello di zinco, su cui appoggiano i gomiti i clienti abituali, mentre quelli di passaggio, troppo di fretta per sedersi in sala o ai tavoli all’aperto, vi sostano davanti in piedi, un po’ rigidi, meno rilassati”. Il bancone è luogo unico e nevralgico, funge da centro di gravità, centro di uno spazio concepito, come la musica del piano bar, per non appartenere a nessuno pur facendo posto a tutti. La mancanza del bancone rivela l’onesta rinuncia a volersi spacciare per bistrot, rimarca Augé. Accomodarsi al bancone è uno stato d’animo, una scelta disimpegnata per andare in direzione dell’altro, della cucina, del nostro interlocutore, segna un’apertura. Una stessa cena, seduti al tavolino o al bancone regala due esperienze molto diverse. Tra i tavolini di un bistrot si oscilla tra nostalgia e attesa della sorpresa, la stessa sensazione l’abbiamo avuta noi rispolverando dall’armadietto in redazione questo delizioso libretto che si legge in un paio di bicchieri di buon vino. Andiamo a mangiare fuori per parlare di altro, per porre domande che altrimenti non solleveremo, per curiosare su di noi e sugli altri. “Un popolo che si concede il tempo di pranzare e che non disdegna le interminabili discussioni che si dipanano tra i tavoli all’aperto, è un popolo romanzesco, che non vive guardando all’indietro, ma sempre nell’attesa del domani”.
Un etnologo al Bistrot - Raffaello Cortina Editore - Pagine: 98 - Pubblicazione: 2015