Dagli spaghetti di Marco Polo al risotto alla milanese: tutte le bufale e le fake news che da secoli si raccontano sul cibo

18 Gen 2025, 08:11 | a cura di
Il desiderio di trovare un'origine e un territorio per tutte le tradizioni gastronomiche ha portato a bufale e fake news che nei secoli si sono strutturate. Ma la verità storiche le smonta una a una

Conoscere l’origine delle cose è sempre stato un desiderio forte e comune e quando le notizie sono incerte o frammentarie, si preferisce inventare piuttosto che arrendersi all’evidenza. L’esempio più antico in campo gastronomico risale alla metà del Cinquecento ed è opera di Ortesio Lando, un chierico vagante che, dopo avere studiato a Milano e Bologna, conduce una vita errabonda percorrendo tutta Europa. Erudito in molti campi del sapere e conoscitore di diverse lingue, ebbe una vasta produzione letteraria, tra cui un pittoresco trattato dal titolo Commentario delle più notabili, et mostruose cose d’Italia contenente un’appendice intitolata “Catalogo delli inventori delle cose, che si mangiano, et delle bevande c’hoggidì s’usano”. Si tratta di un lungo elenco di personaggi veri e fittizi che avrebbero inventato alcune specialità gastronomiche. Troviamo Libista, una contadina originaria di Cernuschio che inventò i ravioli, oppure Meluzza di Como che ebbe l’intuizione di condire maccheroni e lasagne con aglio, formaggio e spezie, e ancora Claritia da Pistoia che “fu l’inventrice di mangiar fagioli col pepe, con l’aceto, col sale et olio, asciutti però et non con brodo”.

Falsi e bufale, dal 1500 a oggi

Nelle pagine si susseguono anche i nomi di chi per primo avrebbe mangiato alcuni alimenti e veniamo a sapere che Nello Brentio fu il primo a mangiare i gamberi, mentre il poeta greco Alessandro Etolo fu il primo a mangiare l’oca, e che Ebuso Pirolo di Montalcino "fu il primo che mangiasse funghi, et freschi, et insalati". Una lista lunga quasi cinquanta pagine di individui a cui dovremmo essere grati per le loro scoperte in cucina. Al termine del testo l’autore mette le mani avanti: “Già mi par d’udir mormorare alcuni scioperati et licentiosi, et dir che questo cathalogo sia per la maggior parte finto”. Chissà come sarà venuto in mente a Ortesio Lando che qualcuno potesse mettere in dubbio la sua buona fede…
In tempi molto più recenti sono state create diverse leggende per spiegare come siano nate le nostre specialità gastronomiche. Molte di esse hanno per protagonisti scaltri popolani che si accorgono di essersi imbattuti in una scoperta culinaria e vengono celebrati ancora oggi per la loro intuizione.

Gli spaghetti di Marco Polo... Tra Cina e Gragnano

Il racconto più celebre, diffuso e pervicace è sicuramente l’attribuzione della scoperta della pasta a Marco Polo durante il suo viaggio in Oriente. Ovviamente non c’è nulla di vero in tutto ciò e all’epoca del famoso viaggiatore veneziano, in Sicilia si fabbricava ed esportava già pasta in tutto il Mediterraneo almeno da un secolo e mezzo, come attesta il geografo arabo Muhammad al-Idrisi.
La leggenda si diffonde a partire da un breve articolo pubblicato nel 1929 sul The new macaroni journal, l’organo ufficiale della National Pasta Association statunitense. Tra pubblicità di farina e trafile per la pasta, viene riportata la storia che ha per protagonista uno dei marinai di Marco Polo che si chiama (ovviamente) Spaghetti. Fermatosi per rifornirsi di acqua lungo le coste del Cathay, vide una donna confezionare lunghi e sottili fili di pasta per cuocerli in acqua bollente. Capì immediatamente di essere di fronte a un’invenzione straordinaria e, dopo averli preparati a bordo della nave di ritorno in Occidente, una volta toccata terra, decise di mettere su una fabbrica di spaghetti a Gragnano.

Il padre (fake) del risotto alla milanese

È invece un umile artigiano l’inventore del risotto alla milanese. Il racconto è ambientato nel cantiere del Duomo di Milano nel 1574 e il protagonista è un allievo del Maestro Valerio di Fiandra alle prese con le vetrate del Duomo di Milano. Innamorato della figlia del maestro, per le nozze fece preparare un risotto colorato con lo zafferano che usava abitualmente per dare il colore dorato alle vetrate della chiesa. Ovviamente anche il garzone non poteva sfuggire alla predestinazione del nome, infatti si chiamava Zafferano.
Inutile dire che lo zafferano si usava abitualmente sui piatti (anche a base di riso) fin dal Medioevo e di certo non sui vetri, pertanto la leggenda fa acqua da tutte le parti. L’artigiano Zafferano non ha inventato il risotto, ma forse sappiamo chi ha inventato la leggenda: sembra che appaia la prima volta in un libro di Otto Cima del 1931, intitolato Milano vecchia. La sua fortuna si deve però all’Ente Nazionale Risi che negli anni ‘30 riprese la storia nel suo volumetto di propaganda Ricette e notizie sul riso.

La pizza Margherita e la Regina

Sono però i re e le regine i soggetti preferiti delle leggende gastronomiche. Non si contano i piatti cucinati in loro onore (o serviti per sbaglio alle loro tavole) che hanno lasciato traccia nella storia della cucina.
La più conosciuta è la storia della pizza Margherita che sarebbe stata dedicata da Raffaele Esposito alla regnante italiana nel 1889. La storia è molto semplice: dopo essere stato invitato a palazzo, il pizzaiolo avrebbe preparato tre pizze, una delle quali a base di pomodoro, mozzarella e basilico per un omaggio ai colori della bandiera italiana. La sovrana mostrò di gradire la pizza e Raffaele Esposito colse l’occasione battezzandola “Margherita”. La storia sarebbe supportata da una lettera esposta nell’attuale pizzeria Brandi in cui viene ringraziato il pizzaiolo per il servizio reso. Lasciando da parte che per alcuni esperti sarebbe un falso, in nessun documento viene mai citata la pizza “Margherita” e questo nome appare solo negli anni ‘30 del Novecento, mentre la farcitura di pomodoro e mozzarella è già attestata almeno dal 1860. Ma in questa leggenda qualcosa di vero c’è: le fonti dell’epoca attestano che la regina Margherita abbia effettivamente degustato in diverse occasioni le pizze di Raffaele Esposito.

Il pasticcio di carciofi e Caterina de' Medici

Un’altra sovrana, stavolta di origine toscana, è invece additata come una delle più rivoluzionarie in cucina. Stiamo parlando di Caterina de’ Medici, diventata regina di Francia nel 1547, un episodio che per molti segna l’inizio di una profonda influenza italiana sulla cucina francese. A lei sono ascritte decine di ricette passate dalla tradizione italiana a quella francese: dalla zuppa di cipolle all’anatra all’arancia, fino all’omelette e i macaron. In realtà l’unica notizia riguardante il rapporto tra il cibo e Caterina de’ Medici è che rischiò di morire a seguito di una indigestione di un pasticcio di carciofi, nulla di più. Le schiere di cuochi italiani che l’avrebbero seguita oltralpe non appaiono in nessuna fonte antica.

Cucina rinascimentale italiana in Francia

Tutto ha origine da una critica francese risalente ai primi del Settecento nei confronti dei costumi licenziosi che sarebbero stati introdotti in Francia dalla sovrana italiana. Questa tesi fu ripresa dalla celebre Encyclopédie dove la sovrana viene accusata di avere lasciato libero sfogo a una «folla di italiani voluttuosi». A distanza di secoli possiamo dire che la cucina italiana rinascimentale ha avuto sicuramente un ruolo fondamentale nella formazione di quella francese, ma non è stata colpa (o merito) della povera Caterina.

La nascita mitologica del tortellino

Risalendo la grande catena dell’essere, dopo popolani e reali non potevamo che arrivare alle divinità celesti. La leggenda della nascita del tortellino bolognese narra di un oste che rimase folgorato dalla vista dell’ombelico di Venere e ne abbia riprodotto le sembianze con un ritaglio di pasta ripiena. La vicenda si svolge nell’Osteria di Castelfranco Emilia durante la guerra tra Modena e Bologna ai tempi di Federico II. Le varianti successive sono molte, hanno sempre per protagonista l’ombelico femminile, ma le proprietarie sono di natali meno nobili.
A inventare questa storia è l’ingegnere bolognese Giuseppe Ceri che la scrive in occasione della “festa mutino-bononiense del 31 maggio 1908”, dove si voleva celebrare la ritrovata amicizia tra le città di Modena e Bologna, storicamente divise da dissidi secolari. L’idea di collocare l’evento in un paese di confine – un tempo bolognese, ma dal 1929 in provincia di Modena – serviva per trovare un compromesso tra due territori che si contendevano la paternità del tortellino. Al di là di costituire un fulcro tra le due città, Castelfranco all’epoca non era segnalata per particolari specialità gastronomiche, se non per il “Pan di Spagna” che gli attribuisce la Guida gastronomica d’Italia del 1931.

La funzione pedagogica di miti e leggende

La lista delle leggende sarebbe ancora molto lunga, tutte accomunate dalla grande fama odierna e dagli oscuri natali. Sembra che il collegamento a radici antiche - possibilmente nobili - sia per noi un requisito fondamentale perché una specialità culinaria venga presa sul serio all’interno di un panorama gastronomico quanto mai affollato. Le leggende hanno un ruolo fondamentale in questa operazione, ma non solo. Infatti non è sufficiente che un’eccellenza gastronomica sia antica, deve essere anche strettamente collegata a un territorio preciso.

La narrazione delle origini diventa così uno strumento per le comunità di raccontare loro stesse e dimostrare l’antichità delle fondamenta collettive. In questo modo i piatti diventano l’espressione identitaria di un territorio, collante ideale per rafforzare la coesione sociale. In questo senso assumono una precisa funzione pedagogica per dare un senso più profondo alle relazioni interne a una comunità.

Inverosimile e verità storica: chi vince, chi perde

La loro funzione sarebbe encomiabile, se non fosse per l’altro lato della medaglia: c’è sempre qualcuno che le prende per vere. Per quanto inverosimili, queste leggende rimangono impresse nella memoria e scambiate con la realtà storica. Il rischio concreto è che queste narrazioni prendano il sopravvento sulla comprensione dei reali meccanismi di formazione di una ricetta (ma anche di una tradizione gastronomica che è poi storia di una cultura popolare) e vengano usate a sostegno di visioni nazionaliste e “sovraniste” del patrimonio gastronomico.

La realtà è molto più varia dell'ideologia

Pensare che le specialità tradizionali siano legate in maniera deterministica a certo un territorio, profondamente autoctone e siano nate senza alcuna influenza, incrocio o apporto esterni, rappresenta una profonda distorsione della realtà. Allo stesso modo è scorretto ritenere che l’autenticità dei piatti tradizionali si fondi su una loro supposta costanza nel tempo: a parte rarissime eccezioni, tutte le nostre specialità gastronomiche hanno subito radicali trasformazioni prima di arrivare alla forma odierna. Senza contare che alcune grandi eccellenze come la carbonara o il tiramisù hanno solo qualche decina di anni di vita.
Le favole sono belle, l’importante è non confonderle con la realtà storica e, soprattutto, non farne un modello programmatico per il futuro.

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