Un detto ebraico dice che se entra il vino esce il segreto. Ma bastano le etichette delle sue bottiglie a raccontare serate in compagnia di Merlot, Barolo, Greco di Tufo. Soprattutto di Barbera che definisce la più terreste delle bevande umane. Etichette che rivestono la stanza dove lo scrittore e poeta Erri De Luca, nella campagna di Bracciano, ferma le parole prima che diventi giorno.
Intervista a Erri De Luca: "Vi racconto le mie sbornie con Corona"
Tutti quei vini quali verità hanno rivelato?
Rispetto all’antico proverbio ebraico, a me accade il contrario. Si approfondisce il silenzio, non l’eloquenza. Nel vino però emergono i caratteri. Più precisamente i loquaci straparlano, i romantici cantano, i pensierosi s’incupiscono, i fortunati s'innamorano.
Qual è stata la prima bottiglia?
Domanda impegnativa per uno di scarsa memoria. Il vino mi suscita ricordi specie se lo bevo da solo. Ma tra i miei ricordi non c’è quello dell’etichetta. Tiro a indovinare: un Per’e Palummo, vitigno dell’isola d’Ischia, non lontano dalla mia Napoli.
I nomi di quei vini rievocano davvero ogni bevuta?
Guardo le figure ma non mi riportano alle presenze intorno al tavolo. Mi rimandano invece a luoghi, le Langhe, la Francia, di recente l’Ucraina che raggiungo con un furgone di aiuti e da dove ho riportato l’acquisto di un paio di bottiglie.
Nella sua poesia “Considero valore” c’è la strofa “considero valore il vino finché dura il pasto”. Perché?
Perché il vino fuori o dopo il pasto degrada verso l’ubriachezza, che può sospendere un dolore ma non è un valore.
Potrebbe concepire un pasto, seppur frugale, senza un bicchiere di vino?
Bevo vino in autunno e inverno, lo sospendo in primavera estate. Mi finisce il desiderio e il gusto di aprire una bottiglia. Bevo inoltre solo di sera, perché non mi siedo a pranzo. Dunque sì, ne faccio a meno per dei mesi, poi con la prima lana addosso ritrovo il piacere.
Lei dice che la capra ha permesso la civiltà nel Mediterraneo. E il vino, cosa ha permesso? Qual è, in assoluto, il valore del vino?
Noè piantò una vigna appena sbarcato dal diluvio. Si vede che aveva portato la piantina sull’arca, come hanno fatto molti emigranti nostri contadini, partiti per le Americhe con un mazzo di viti. La vite, la pergola, sono come il camino in cucina, il simbolo della residenza. Nel sorseggiare il vino a inizio pasto alcune religioni pronunciano una benedizione di ringraziamento.
Quali i vini più amati?
Ho amato la umile Barbera delle osterie, delle piòle piemontesi. Erano gli anni di gioventù in cui facevo l’operaio, prima che la scrittura mi riscattasse dal lavoro di muratore. Quando uscivo di fabbrica, dopo il secondo turno delle 22.00, andavo in una di quelle taverne a giocare a scopone con pensionati che mettevano in palio il pintone, la bottiglia da due litri. Era Barbera a buon mercato, di un solo vitigno, densa, la più terrestre delle bevande umane. Il suo grado alcolico si depositava nei piedi, lasciando la testa sgombra. Poi ci si alzava e si sentiva il peso nelle scarpe, inciampando nei primi passi. Oggi la Barbera si è fatta signora, non la riconosco.
Dunque più rossi che bianchi?
Rossi, anche per il pesce. Ma in Francia conobbi il prezioso Meursault e allora quando ci vado me lo procuro.
Come riconoscere un buon vino?
Ho un palato grezzo, non riconosco le sfumature segnalate dagli esperti, dunque mi accorgo semplicemente se è buono o cattivo. Quello cattivo mi dà mal di testa il giorno dopo. Il vino che smaltisco bene dentro il sonno è buono, almeno è stato buono con me.
E lo Champagne? Solo per festeggiare?
Lo Champagne non lo cerco. Mi va bene un Prosecco.
I vini dove li conserva?
Ho un sottoscala dove il vino se ne sta al buio, sdraiato. Non è per lunghe conservazioni, non lo faccio invecchiare. Per l’invecchiamento basto io.
La prossima bottiglia?
Un Nebbiolo già appeso al cavatappi. Un apribottiglie presente in tutte le osterie piemontesi e che ho comprato a Torino nell’altro secolo.
Che potere evocativo hanno il ricordo di quelle bottiglie sulle sue parole? Il vino accompagna anche la scrittura o ne altera lo stile?
Non scrivo se ho bevuto. La mia scrittura ha bisogno di orari molto precoci, subito dopo risvegli prima di giorno. Scrivo in cucina perché d’inverno è la stanza che conservo riscaldata. Il quaderno sul quale scivola l’inchiostro ha per compagnia intorno piatti, bicchieri, posate e al muro le etichette.
Al di là della prima bottiglia, di tutte quelle bevute ce n’è una alla quale è più legato?
No, niente classifiche, così come non ne assegno ai giorni, ognuno valoroso di per sé.
Ma la più bella bevuta della sua vita?
La prima. Non avevo assaggiato vino fino a 19 anni e quella sera aggredii in casa d’altri un fiasco di Chianti. Avevo un malincuore amoroso che mi mordeva dentro e volli provare ad affogarlo. Finii affogato io.
E un’altra sbornia che ancora ricorda?
Oltre la prima, una di quelle allegre in compagnia di Mauro Corona a Erto, con contorno di canti alpini, lui con l'armonica a bocca e io a gola piena. Con lui innumerevoli bevute e in bei posti fuori mano. Un autore in cui il vino ha un forte potere evocativo. Ho anche una sua scultura in legno che s’intitola Il Canto dei bevitori.
Cosa cantano o raccontano quei bevitori?
Sono muti, ma raggiunta una buona maggioranza di vino nel sangue, li sento cantare in napoletano.
E i liquori possono accompagnare la scrittura? Ce ne sono eventualmente di più indicati?
Certi scrittori hanno avuto bisogno di alcol in corpo per concentrarsi. A me serve l'assenza di qualunque stimolo. In montagna mi piace ogni tanto un sorso di genziana.
Nella sua campagna produce anche vino? E se sì, di che tipo, come l’ha chiamato?
Ho un poco di campo, pianto qualche albero e da vari decenni ho davanti casa un piede di uva fragola che ogni anno me ne dà. Se lo producessi lo chiamerei Compagno.
Quasi fosse una breve rima, quali parole sceglierebbe per raccontare il vino?
Caro vino che mi stai vicino, portami lontano.
a cura di Vania Colasanti