È nelle sale dall’11 gennaio, Enea, il nuovo film di Pietro Castellitto che racconta le vicissitudini della vita di un trentenne, figlio della borghesia romana, dedito a spaccio di droga, soldi, feste e divertimento. Tutto sotto il riflettore triste e desolato di due genitori che borghesi non sono nati.
La noia dei figli della borghesia è spesso argomento di discussione in letteratura e nel cinema. Già lo aveva fatto molto bene Patrizio Bati nel libro “Noi felici pochi”, dove racconta il trastullo mentale e apatico di un gruppo di ragazzi borghesi della Roma bene che ricorrono anche alla violenza pur di uscire dalla gabbia dorata in cui sono cresciuti. Se Enea è un prosieguo intellettuale di questa storia, la cosa che sorprende è di come il cibo sia stato introdotto (bene) in questo film, descrivendolo nel suo ruolo di feticcio e riducendolo a mero soprammobile per descrivere ancora meglio la pochezza di certi ambienti borghesi e l’apparenza che i ricchi devono ostentare a tutti i costi.
Il cibo e l’ignoranza dei borghesi italiani
Il viaggio dell’eroe, Enea - che quasi cerca il senso ultimo della vita attraverso i fasti che il denaro e il potere possono dare - passa attraverso il lusso del cibo: questo bere e mangiare visti come accessori sontuosi da mostrare per brillare ancora di più.
Le scene sono decine, il cibo compare ovunque: quando non è un primo piano di carpaccio di spigola, è uno zoom stretto su calici di vino. Il vino non manca mai, in Enea, perché i calici ci devono essere. Si passa da quelli in cristallo, alle flûte o alle coppe di champagne, sino ai classici, a volte impugnati anche nel modo giusto, a volte no, perché la regola base nell’immaginario comune la sanno tutti: il calice s’impugna dallo stelo.
Il film, poi, è un fioccare di frasi fatte che svelano l'ignoranza del tema enogastronomico tra i borghesi: si parla della figlia di quel produttore di “vini senza solfiti”, si intercetta un “desidera anche lei il percorso dello chef?” proposto dal maître e accettato dal commensale borghese senza sapere di cosa si stia parlando, a maggior ragione quando a tavola gli portano il (solito) “piccione”: come se mangiarlo, fosse da intenditori. Il cibo passa in secondo piano anche se si sfoderano 300 euro a cranio: si fa per apparenza. Punto.
Compaiono, dunque, dinamiche trite e ritrite: come se pronunciando le paroline magiche (vedi sopra) o compiendo i gesti da manuale del finto intenditore, si possano elevare questi borghesi descritti perfettamente da Castellitto a potenti del sapere; in coloro che pensano di avere il monopolio della verità su tutto, compresa la capacità di giudicare ristoranti di prestigio e vini, soltanto perché possono permetterseli.
Borghesia vs Popolo
Per contro, questo film spiega anche il divario tra la borghesia e il popolo. Una delle scene emblematiche è la lettera che un giovane paziente di Celeste, padre di Enea che è psicoterapeuta, gli invia via mail. Quello che il ragazzo descrive è la sua passione per la granita al caffè e il desiderio di diventare grande, andare in America e vendere granite agli americani. Qui il senso del cibo cambia rotta, si oppone, non è accessorio ma strumento essenziale per vivere e motivo a cui aggrapparsi per resistere. Come se il tema gastronomico avesse un valore diverso, se non diametralmente opposto, in base alla categoria sociale di appartenenza.
Il film Enea è anche l’occasione per descrivere la ribellione di certi figli della borghesia, nei confronti di dinamiche e di etichette a cui non vogliono aderire. Significativa la scena al fast food dove Enea e la fidanzata, dopo una notte passata fra droga, alcol e perversione, finiscono a fare colazione, con il fratello minore di Enea, a colpi di polletti, patatine fritte e Coca- Cola, come a dire: “Noi vorremmo essere questo, ma abbiamo dovuto essere altro”.