"L'alta cucina è per pochi, ma non è morta". Intervista a Emanuele Scarello, chef due stelle Michelin

25 Lug 2024, 16:39 | a cura di
Emanuele e Michela Scarello, dello storico Agli Amici di Udine, sono riusciti a conquistare il doppio macaron anche in Croazia grazie alla loro cucina del territorio. I ristoranti fine dining "non sono morti", rimangono fedeli a sé stessi. La carne coltivata? "Sono contrario"

Il territorio come ingrediente ordinario di un piatto straordinario. Questo il fil rouge che lega l’attività della famiglia Scarello da poco premiata con la seconda stella Michelin anche nel ristorante di Rovigno: siamo in Croazia, Rovinj è il nome locale del paese, e quella degli Scarello è la storia di una famiglia vocata all’accoglienza e alla ristorazione. Da cinque generazioni gestiscono il ristorante Agli Amici di Udine aperto nel 1887 a Godina come una rivendita di coloniali e tabacchi e diventato, nel 2013, il secondo ristorante nella storia del Friuli Venezia Giulia a ottenere due stelle Michelin. Il territorio, dicevamo, è ingrediente, ma anche cultura e necessariamente protagonista di ogni portata in tavola. In cucina non si contano i prodotti locali provenienti dalla terra e dal mare. Nel 2021 l’apertura de Agli Amici Rovinj grazie alla partnership con il Maistra Hospitalty Group nello spazio tra il Grand Park Hotel Rovinj e la Marina: ristorante che dopo tre mesi prende la prima stella Michelin e a giugno di quest’anno diventa il primo locale in Croazia a ottenere due macarons. Ad aprile 2023 la terza apertura: Agli Amici Dopolavoro all’interno del JW Marriott Venice Resort & Spa sull’Isola delle Rose. Abbiamo incontrato i fratelli Emanuele e Michela Scarello nello storico Agli Amici di Udine.

Emanuele Scarello, cosa unisce le realtà di Udine, Rovigno e Venezia?

Il nostro pensiero che portiamo sul luogo e facciamo germogliare. In ogni territorio devi creare delle relazioni con gli allevatori, i pescatori, i contadini, devi costruire un rapporto che vada oltre la fornitura. A Rovigno non parliamo la stessa lingua, ma amiamo la stessa terra che in questi anni abbiamo imparato a conoscere. In carta adesso abbiamo un piatto con degli scampi pescati tra Cittanova e il Quarnero: in questa zona ci sono i migliori che si possano trovare non solo nell’Adriatico, ma nel mondo.

Come lavorate in Croazia?

Lì non esiste una flotta di pescherecci dedicati a una determinata pesca: ci sono barche singole e tu devi contrattare con ognuno perché non c’è un mercato ittico grande. All’inizio è stato difficilissimo: abbiamo iniziato a lavorare con un pescatore che ci portava due o tre casse di scampi ma non li selezionava: noi volevamo solo i migliori e alla fine abbiamo deciso di comprare tutto l’anno tutto il pescato di quella barca. Facciamo la selezione degli scampi a bordo: quelli che ci servono vengono portati Agli Amici, i restanti li usa il gruppo Maistra per gli altri ristoranti che gestisce. Discorso analogo a Venezia dove proponiamo proposte strettamente legate alla laguna, al mare e all’orto presente sull’isola. In ogni location vogliamo lavorare con le eccellenze che si trovano su quel territorio.

E la famiglia?

Beh è il centro di questo pensiero, ma per noi anche l’ospite che viene nei nostri locali è famiglia. Cuciniamo per lui come se fosse uno della nostra casa e in quel momento lo dobbiamo far stare bene. Famiglia poi, per noi, è anche sinonimo di gruppo che, nel nostro caso, è molto coeso. I ragazzi che lavorano con noi credono in questo pensiero, lo vivono quotidianamente e fa parte della loro professionalità. In tutto, sui tre locali, ci sono una settantina di persone. Chi si occupa stabilmente della cucina di Rovigno è Simone De Lucca, con la supervisione da Godia di Elia Calcinotto e Riccardo Celeghin, nell’ottica del lavoro di squadra che contraddistingue il nostro approccio, mentre sull’Isola delle Rose abbiamo Lorenzo Lai e Martina Peluso.

Vi aspettavate la seconda stella a Rovigno?

Abbiamo spinto tanto insieme a Maistra perché volevamo che questo ristorante disegnato da Lissoni, anche se nuovissimo, diventasse ancora più bello. Io e mia sorella siamo stati presenti tutte le settimane e abbiamo lavorato sodo con la brigata composta da ragazzi giovanissimi che però avevano già lavorato in ristoranti stellati e conoscevano bene la cultura del sacrificio, dell’attenzione, della pressione. In cucina adesso abbiamo ragazzi italiani e una ragazza croata, mentre in sala sono tutti giovani del posto con una grande voglia di fare. È bello cercare di far capire in maniera totale cosa vuol dire fare un raviolo di pasta all’uovo, come questa debba essere tirata, unita sui lembi, ma è bello perché ci sono uno scambio e una trasmissione che portano a farci conoscere usanze diverse dalle nostre.

Vista la sua attenzione per la materia prima, utilizzerebbe mai la carne coltivata?

Sono molto legato ai piccoli produttori e alle cose vere, per questo ho anche firmato una petizione contro il cibo sintetico. Non la utilizzerei mai, in primis perché, sono sincero, non ne ho la conoscenza, ma essendo cresciuto in una generazione in cui era normale mangiare pollo, coniglio, carne vera e reale questo passaggio non riesco proprio a pensarlo: non è nelle mie corde né nella mia cultura.

Cosa pensa di chi dice che il fine dining sia morto?

Penso che non sia affatto morto e che anzi viva di vita sua indipendente. Non so perché, ciclicamente, lo vogliano sempre dare per morto. La verità è un’altra e riguarda i costi perché negli ultimi anni i costi delle materie prime sono schizzati, aumentando tra il 20 e il 25 per cento. I ristoranti sono aumentati dal 10 al 15 per cento, accollandosi il divario, senza caricarlo tutto sull’ospite ed è per questo che stiamo tutti più attenti alle spese come in tutte le aziende, adeguandoci al mercato.

Come è cambiata invece, secondo lei, la cucina in questi ultimi venti anni?

Come dicevamo prima l’alta cucina, non si sa perché, ciclicamente viene sempre data in estinzione: anche una ventina di anni fa sarebbe dovuta soccombere ai bistrot e ai gastro bistrot, invece eccoci ancora qui. Io credo che l’alta ristorazione abbia costi elevati e debba essere per pochi: se ti propongo il caviale, degli scampi che sono pescati a rampone e hanno un costo differente, non posso farli passare per ingredienti popolari. Pensiamo all’orata, che oggi si trova sui banchi a 3,80 euro al chilo: l’abbiamo resa alla portata di tutti, ma ci chiediamo mai che cosa abbiano mangiato quelle orate per costare così poco? Se non posso mangiare un tonno rosso mangio un alletterato, ma se voglio il primo devo sapere che lo pagherò molto.

Quindi qual è il futuro dell'alta cucina? 

L’alta cucina non è cambiata nel tempo perché è rimasta fedele a sé stessa: si è sempre distinta per un certo tipo di ingredienti, per l’accoglienza, la mise en place, per un concetto di ospitalità a tutto tondo. Per quanto mi riguarda ho voluto conoscere tutto il possibile, ma oggi c’è una parte di me che prevarica sulle altre, quella della consapevolezza. La parte della coscienza mi dice che ci può essere un ingrediente straordinario dell’altra parte del mondo ed è giusto che io lo conosca, ma non è necessario che lo debba usare per realizzare un piatto. Mettere su un aereo un pezzo di carne per portarlo a Godia non mi interessa: preferisco lavorare con un agnello che arriva dall’Istria o con un bovino allevato qui da noi al confine con l’Austria, sulle Alpi.

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