Mangiare italiano a Parigi secondo il New York Times
Dunque è Parigi, “la migliore città per mangiare cibo italiano, fuori dall'Italia”? Se lo chiede il New York Times, nel lungo articolo a firma di Seth Sherwood, che raccoglie un bel numero di argomentazioni calzanti a sostegno della sua tesi. Muovendosi tra le realtà gastronomiche- non necessariamente legate a investimenti di nostri connazionali - che della cucina italiana hanno fatto un potente motivo di attrazione per distinguersi nel panorama della ristorazione parigina (pensiamo al gruppo Big Mamma su tutti); o in cerca di giovani cuochi italiani di talento, che a Parigi hanno trovato la dimensione ideale per emergere. E ancora tra pizzerie d'autore (nella capitale francese il campione è Gennaro Nasti, con Bijou, premiato con i tre spicchi tricolore dalla guida Top Italian Restaurants del Gambero Rosso), botteghe di specialità made in Italy e nuove aperture di rilievo in città, com'è la prima roccaforte insediata da Eataly in Francia, in servizio dalla primavera scorsa nel cuore del Marais.
L'accordo sancito dal gruppo di Farinetti con le Galeries Lafayette, in effetti, ha messo il sigillo sulla cavalcata - impensabile ancora una decina di anni fa – dell'enogastronomia italiana a Parigi: a lungo pianificato, l'arrivo nella città dei grandi magazzini (oggi anche a tema alimentare) del più celebre progetto gastronomico italiano da esportazione sembrerebbe confermare la tesi del New York Times.
I protagonisti del made in Italy a Parigi
Nel caso specifico, il quotidiano americano - che di recente ha messo in prima pagina l'Italia per indagare sul caso delle orecchiette di Bari (Call it a crime of pasta, titola con licenza poetica il giornale) – passa in rassegna di tutto un po': la mozzarella di bufala prodotta a Parigi dell'italo-francese Julien Carotenuto, fondatore di Nanina; i molteplici progetti di Denny Imbroisi, che dopo Ida ed Epoca ha appena inaugurato in città Malro, incentrato sui sapori del bacino mediterraneo; gli attestati di stima di Pierre Gagnaire e Alain Ducasse per la cucina tradizionale italiana, rispettivamente con Piero TT e Cucina. E poi i bar che promuovono a Parigi il rito dell'aperitivo (di gran moda anche negli Stati Uniti), ma anche il pensiero raffinato di Oscar Quagliarini, che all'Hotel National des Arts et Metiers ha portato la sua idea di miscelazione, con Herbarium. Numerose anche le pizzerie napoletane menzionate, ma il focus del NYT sulla pizza a Parigi si sofferma proprio su Gennaro Nasti. Poi arrivano i pezzi da novanta della new wave (ormai più che consolidata) italiana capace di mettere d'accordo pubblico e critica: Giovanni Passerini, Simone Tondo, Michele Farnesi. And so on, colorando di diversi volti, e storie, il concetto riassunto in poche righe: “Arrondissement dopo arrondissement, gli “italiani” escono vittoriosi nella capitale gastronomica più orgogliosa e celebrata del mondo, affascinando i parigini con il loro calore mediterraneo (qui il NYT si sofferma sulla presenza di spirito e la pronuncia rotonda della R degli italiani in città, ndr), mentre guidano alcune delle nuove gastronomie più accattivanti di Parigi, pizzerie d'autore, ristoranti e cocktail bar”. Insomma, ribadisce l'articolo, “la new wave italiana a Parigi è giovane e attenta allo stile, animata da una certa leggerezza, prodotti freschi, vini di personalità e cocktail originali”. Siamo tutti d'accordo?