Los Angeles e le sue cucine
Per le strade di Los Angeles molti possono dire di averlo visto girare a bordo del suo pickup verde, per anni fedele alla causa: facile riconoscerlo, per quel look che è sempre stato uno dei suoi marchi di fabbrica, i capelli lunghi fin sulle spalle, i baffi folti, lo sguardo serafico e curioso, sempre in cerca di nuovi posti da scoprire. In strada, per le strade della sua Los Angeles, Jonathan Gold era un cicerone perfetto. Più di 30 anni trascorsi a sperimentare ogni cucina della città – dov’era nato il 28 luglio del 1960 – a questo sono serviti: del suo lavoro, il critico gastronomico del Los Angeles Times aveva fatto una missione cui dare un senso ogni giorno sul campo, raccontando soprattutto quello che difficilmente sarebbe finito sulle colonne di un quotidiano di prestigio prima che lui sdoganasse un nuovo approccio alla critica. Da sempre la sua curiosità verso il cibo era legata all’opportunità di entrare in contatto con culture e costumi diversi, convinto che dietro alle specialità di un food truck latinoamericano o nella cucina di un modesto ristorante coreano in qualche zona remota della città potessero nascondersi chiavi di lettura immediate per stimolare il confronto, e la conoscenza dell’altro. “Scrivendo cerco di convincere le persone a non avere paura dei propri vicini” disse una volta a proposito della sua ricerca incessante tra pizzerie e sushi bar, pit master e venditori di noodle, taco bar, bistrot e ogni altra tavola che potesse attirare la sua attenzione per la capacità di raccontare una storia calata in un contesto autentico.
Il Premio Pulitzer
Fu questo suo approccio antropologico alla critica gastronomica a fare di Gold un precursore del genere, in quell’Olimpo che annovera tra gli altri Anthony Bourdain, forse più popolare a livello internazionale per la sua lunga carriera in tv, ma pure lui agli inizi ispirato proprio dal critico losangelino, non a caso primo e unico vincitore di un Premio Pulitzer al giornalismo gastronomico, nel 2007, quando scriveva sulle pagine di LA Weekly. All’indomani della sua scomparsa – repentina e senza prova d’appello, pochi giorni prima del suo 58esimo compleanno, per un tumore al pancreas diagnosticato un mese fa – l’America rende omaggio al suo critico più celebre e stimato: lo fa Pete Wells, eminenza del New York Times, con un lungo articolo che sancisce l’importanza del metodo Gold, impegnato sul campo sin dal 1986, quando in arrivo dal mondo della critica musicale (bravo suonatore di violoncello e grande conoscitore della scena punk degli anni Ottanta) Jonathan cominciava a scrivere di cibo e ristoranti, una passione coltivata da sempre (Counter Intelligence si chiamava la sua prima rubrica su LA Weekly).
La gioia di un mangiatore erudito
E lo ricorda pure Ruth Reichl, sua editrice ai tempi di Gourmet: “Molto prima che le persone considerassero seriamente le cucine etniche, lui fece in modo che il cibo potesse raccontare le persone e avvicinarle tra loro. Scriveva delle persone ancor prima che del cibo, e di questo ha fatto un importante strumento di comprensione dell’altro”. Per questo era più facile trovarlo a spasso nella Los Angeles multietnica – dove però le diverse comunità continuano a non comunicare tra loro, diceva, e raccontare le tavole di quartiere contribuisce a stimolare la curiosità – che seduto in qualche ristorante blasonato del gotha internazionale, che pure ha visitato senza risparmiarsi in tutta la sua carriera, offrendo a i suoi lettori recensioni altrettanto puntuali. Però non si è mai preoccupato di accostare l’una e l’altra narrazione, dando uguale dignità al venditore di burrito e al Noma. Nel 2015 il documentario City of Gold ripercorreva le tappe della sua carriera e le sue passioni, seguendolo a bordo del suo pickup per mostrare le infinite relazioni tra il cibo e le culture che convivono a Los Angeles. E oggi lo ricorda anche il sindaco della città, Eric Garcetti: “Era l’anima di questa città e di tutti i suoi sapori”. Il suo impegno, del resto, è stato limpido e costante, ben riassunto più di 10 anni fa nelle parole della giuria che gli assegnava il Pulitzer, “per la capacità di raccontare con le sue recensioni la gioia di un mangiatore erudito”.
a cura di Livia Montagnoli