È morto Gianni Frasi. Il torrefattore che sussurrava agli chef

7 Dic 2018, 11:11 | a cura di
Nel laboratorio di Verona era cresciuto e sempre si è impegnato per valorizzare la cultura del caffè e il mestiere del torrefattore. Temperamento sanguigno, passione per il blues, rigore e pensiero che gli sono valsi tanti estimatori e qualche nemico. Lui andava dritto per la sua strada

Il torrefattore amato dagli chef

Da qualche settimana il caffè di Gianni Frasi è arrivato anche in piazza della Scala, nel centro di Milano. L’hanno voluto con sé, perché la caffetteria di Voce non fosse da meno al ristorante adiacente, Stefania Moroni, Alessandro Negrini e Fabio Pisani, che le miscele della torrefazione Giamaica le portano in tavola da tempo al Luogo di Aimo e Nadia. E come loro molti altri ristoratori e chef della ristorazione illuminata, che in Gianni da anni (al mondo della ristorazione si era avvicinato già alla metà anni Ottanta, restando una voce unica fino alla fine dei Novanta) trovavano un valido alleato per presentare agli ospiti un caffè che fosse degna conclusione di un pasto centrato sulla qualità del prodotto, sulla sua dignità. E infatti sono Massimiliano e Raffaele Alajmo - che con il torrefattore veneto vantavano un sodalizio che si era mosso ben oltre il rapporto commerciale, giocato sulla sintonia e la comunione di intenti – le prime voci celebri a rammaricarsi per la notizia arrivata repentina, nel pomeriggio del 6 dicembre: Gianni Frasi, 63 anni all’anagrafe, non c’è più. Il patron del Giamaica Caffè - “cacciatore di chicchi”, come amava definirsi – è scomparso nella mattinata di ieri, dopo una vita trascorsa a raccontare un mestiere di pochi, specie per il rigore e la consapevolezza con cui lo affrontava lui, che l’arte della torrefazione l’aveva ereditata dallo zio Giovanni Erbisti (erede a sua volta di una tradizione familiare iniziata a Verona nel 1836), continuando a lavorare i chicchi direttamente sulla fiamma aperta, e promuovendo in Italia la cultura del caffè di qualità e dell’artigianalità prima che, com’è sempre più evidente negli ultimi tempi, questa cultura trovasse sponda e respiro tra molti professionisti del mondo gastronomico, e credito presso un numero crescente di addetti ai lavori.

 

La cultura del caffè. La dignità del chicco

Il merito è stato anche suo, strenuo e sanguigno difensore di una fede che gli è valsa tanti estimatori, lui che nel suo laboratorio veronese (il nome si deve ai chicchi di Giamaica lavato torrefatti dallo zio Giovanni) accoglieva solo chi aveva voglia di comprendere il suo lavoro, e di lasciarsi guidare alla scoperta di un mondo complesso, di una filiera che si chiude in torrefazione, ma dev’essere indagata alle origini, avendo consapevolezza dell’origine dei chicchi e di com’è svolto il lavoro in piantagione. Lui aveva viaggiato per vederle con i propri occhi, dal Perù all’Amazzonia, da Haiti al Sarawak, per cogliere le disparità e scegliere chi lavora con qualità. Ma Gianni Frasi, per chi lo sapeva ascoltare, era anche “un caro amico”, come ricordano commossi i fratelli Alajmo, “con cui abbiamo condiviso innumerevoli progetti e sogni”: con lui, dalla conversazione di una sera, alle Calandre, nasceva il progetto del Caffè Stern, l’idea di far rivivere un luogo storico e straordinario di Parigi perché fosse anche la casa del caffè, chicchi di arabica selezionati da Frasi per raccontare il rito dell’espresso.

 

Il mestiere del torrefattore

Un conoscitore del buono e del bello (e grande amante del blues, con cui si cimentava in prima persona, da frontman della John Papa Boogie Band) non sempre facile da capire, dietro il suo piglio burbero espressione di spiccata onestà intellettuale: “Il caffè non è consolatorio” diceva “non attrae: è amaro. Il caffè è per uomini liberi, il prodotto voluttuario per eccellenza”. E così chiamava in ballo la volontà individuale, senza però rifugiarsi dietro allo status di pensatore dei tempi moderni. Perché lui era prima di tutto un artigiano, pur capace di farsi guida “spirituale” del caffè, mentore non sempre capito, spesso avversato per i suoi giudizi più che tranchant. La torrefazione l’aveva frequentata sin da bambino, assistendo negli anni al ripiegarsi di un mestiere messo a rischio dalla crisi dei piccoli artigiani, e dall’avvento di nuovi mercati, come quello di cialde e capsule, stigmatizzato nell’intervista rilasciata al Caffè Roscioli (“siamo di fronte al satanismo puro, una scimmiottatura dell’espresso”), dove Frasi racconta a ruota libera il suo mestiere, quello che non gli piaceva più e i principi che lo animavano.

Il ricordo dei colleghi

Inutile negare le difficoltà di relazionarsi con Gianni. Riservato e schivo, il torrefattore veronese non risparmiava battute sarcastiche e commenti pungenti neanche ai giornalisti. Noi stessi abbiamo provato, 3 anni e mezzo fa, a ottenere un'intervista con lui: tre tentativi, due mancate risposte, un rifiuto finale in pieno stile Frasi. Burbero sì, ma anche schietto e diretto: d'altronde, se non si ha avuto almeno una volta uno scontro con Gianni, non si può dire di aver lavorato nel mondo del caffè. Era il 2015 e la nostra rubrica sulle torrefazioni di ricerca italiane era appena cominciata. Il mondo dello specialty e dei caffè di nicchia era ancora tutto da scoprire. E per questa indagine, non potevamo che iniziare dai maestri, coloro che avevano mosso i primi passi nel settore, segnando la prima, grande svolta nell'universo dell'oro nero. Personaggi come Enrico Meschini (Le Piantagioni del caffè), Leonardo Lelli (Lelli Caffè), Gianni. Professionisti che hanno intrapreso poi una strada diversa, ma che hanno tutti iniziato ispirandosi (anche) al suo lavoro.  "Eravamo io, Le Piantagioni, Il Doge... e Giamaica Caffè” ricorda ora Leonardo LelliStiamo parlando di oltre 20 anni fa, io e Le Piantagioni volevamo creare un'associazione, fare gruppo. Chiamai Gianni e puoi immaginare la risposta: un secco no. Nonostante le incomprensioni, però, devo ammettere che è stato un vero rivoluzionario: un anticipatore di tendenze e soprattutto uno che non si è mai adeguato alle mode del momento. Sceglieva i caffè che piacevano a lui, seguiva il suo gusto personale. Se a lui piaceva un caffè, allora era buono; nient'altro da aggiungere". Ce lo racconta anche Massimo Bonini, di Lady Cafè, che Gianni lo conosceva molto da vicino: "Ho lavorato quasi 18 anni con Gianni. Non ci siamo lasciati bene, purtroppo. Certo, è facile lasciarsi andare alla nostalgia in un momento come questo, ma bisogna ammettere che aveva un bel caratterino. Al di là delle discussioni, naturalmente, a lui devo molto. È grazie a lui se mi sono avvicinato al mondo del caffè: lavoravo in pasticceria e usavo dei chicchi piuttosto commerciali. Con Gianni, ho scoperto un mondo, ho partecipato anche due volte a Vinitaly insieme a lui. Erano i primi anni, quelli che non dimenticherò mai".

Il suo messaggio in questi anni è arrivato a ristoratori, baristi, droghieri illuminati capaci di mettere al centro il prodotto. “Lui aveva una risposta per tutto”, ricorda oggi qualcuno, già stringendosi nella nostalgia di un maestro che non sarà più possibile interpellare. Ma gli insegnamenti di Gianni non andranno perduti: ora la torrefazione resta nelle mani di Simone Fumagalli, ragazzo giovane, che tosta già da tempo.. L’ultimo saluto, martedì 11 dicembre, alle 15, presso la chiesa di San Giorgio in Valpolicella.

 

a cura di Michela Becchi e Livia Montagnoli

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