Braccianti. Un lavoro diverso è possibile: l’impegno di No Cap
“Perché uno straniero viene a parlare dei nostri diritti sul territorio, a che titolo? Qualcuno potrebbe pensarlo, ma il tema dello sfruttamento ci riguarda tutti. Con No Cap abbiamo iniziato con gli stranieri sfruttati nei campi del foggiano, ora siamo nel Metaponto e nelle campagne del Salento per dare voce alle braccianti italiane che da decenni lavorano in un sistema di illegalità”. Yvan Sagnet è arrivato in Italia nel 2007, dal Camerun. Testimone diretto della tragica rivolta di Nardò, che avviò l’iter legislativo poi concretizzatosi nella prima legge italiana sul caporalato (148/2011, aggiornata dal disegno di legge 2217), ha fondato l’associazione No Cap con l’obiettivo di costruire un futuro diverso per chi lavora nei campi. All’attivo, la produzione della passata di pomodoro No Cap - prodotta nella Capitanata e commercializzata con il marchio Iamme grazie al supporto del gruppo di distribuzione Megamark - ma anche il confezionamento di prodotti ortofrutticoli freschi nel Metapontino, e la coltivazione di diverse varietà di pomodoro nel Ragusano. Tutto in applicazione dei contratti collettivi del lavoro, e in osservanza di un decalogo che spazia dal rispetto per il lavoro umano alla sostenibilità ambientale, alla valorizzazione della trasformazione del prodotto, con processi ad alto valore aggiunto.
L’alleanza tra lavoratori, produttori e distribuzione
Questa volta, ad ascoltare Sagnet nello spazio allestito a Policoro (Matera) per presentare l’iniziativa Donne braccianti contro il caporalato, ci sono proprio loro, 50 lavoratrici italiane che hanno scelto di ribellarsi al sistema che le umilia. Un processo non facile, considerando quanto questo sistema criminale e malato permei il lavoro agricolo, con la complicità di tutti gli attori della filiera, consumatori compresi. Ovunque in Italia, e non solo – come erroneamente si è portati a pensare – ai danni degli immigrati irregolari considerati l’anello più debole della catena: “Non è facile mettere la faccia dentro a un percorso di legalità, alcune lavoratrici mi hanno raccontato di minacce, ‘se partecipate al progetto rischiate’, gli dicono i caporali. E la questione non riguarda solo il caporalato, ma anche l’evasione contributiva, il sotto salario, gli orari di lavoro. Parliamo di 30mila donne italiane che vengono sfruttate: alle 3 del mattino salgono sui pullman dei caporali, da decenni; lavorano fino a 12-16 ore al giorno in campo. Non può essere così! Si lavora al massimo per 6 ore e mezzo, e la paga contrattuale dev’essere rispettata: vogliamo far capire alle aziende che non si può fare terrorismo psicologico verso i lavoratori”. La denuncia dell’associazione No Cap, lungi dall’essere solo una protesta urlata a gran voce, vuole dare vita a un progetto concreto, come già avvenuto con il pomodoro, con la regolarizzazione di 150 braccianti extracomunitari. Nel Metaponto, con le 50 donne capofila dell’iniziativa, e le aziende che hanno risposto alla chiamata, si lavorerà sull’ortofrutta, con la commercializzazione di uva da tavola a marchio Iamme: “Il nostro progetto è reale e si basa su un’alleanza storica tra braccianti, produttori e distribuzione organizzata. Per un rapporto alla pari, da cui guadagnano tutti: l’azienda ha bisogno del lavoratore e viceversa; la distribuzione ha bisogno del produttore e viceversa. Tutti siamo utili, e speriamo che le istituzioni sul territorio possano supportarci. Ma faccio un appello anche ai consumatori: la consapevolezza farà la differenza. I 60 milioni di italiani che fanno la spesa devono farsi le domande giuste, altrimenti continuano ad alimentare questo sistema marcio. Il consumo consapevole fa la differenza”.
Donne in campo. L’uva di Ginosa
A farsi portavoce del lavoro di No Cap c’è l’associazione di economia etica RetePerlaTerra, guidata da Gianni Fabbris. Ma sul palco di Policoro, la testimonianza più importante è quella di Lucia Pompigno, bracciante da una vita, che porta la voce di tutte le donne come lei, proprio nel giorno del quinto anniversario della morte per infarto della bracciante Paola Clemente nelle campagne di Andria. Le donne coinvolte in questa filiera bio-etica – dove il produttore che riconosce il giusto compenso ai lavoratori viene a propria volta ripagato dal prezzo equo proposto dalle rete di distribuzione Megamark – avranno contratto regolare per raccogliere uva da tavola nei campi di Ginosa, per 6 ore e mezza al giorno a 70 euro lordi (contro i 30 euro giornalieri per 10 ore e più concessi dai caporali). Potranno inoltre usufruire di alloggio e trasporto gratuito verso i luoghi di lavoro, sottraendosi al controllo dei caporali. L’uva sarà poi confezionata presso l’impianto di Aba Bio Mediterranea di Policoro, e distribuita dal Gruppo Megamark nei supermercati a insegna A&O, Dok, Famila, Iperfamila e Sole365 nel Sud Italia, per una produzione di circa 950 mila confezioni da mezzo chilo di uva e un fatturato atteso di circa un milione di euro. Terminata la raccolta, da novembre, le donne coinvolte nel progetto inizieranno a lavorare con le arance. Finalmente libere di esercitare il proprio diritto al lavoro.
a cura di Livia Montagnoli