Caro distributore di cibo, che tu sia un compratore per la grande distribuzione o un marchio dietro le creazioni del fine dining, da un po’ di tempo ti penso intensamente. Lo faccio perché mi è sempre più chiaro che tu sei molto più importante di quello che dai ad intendere, e perché ho la netta sensazione che stiamo andando in una direzione non ottimale, almeno in termini di sostenibilità.
L'aglio egiziano a Milano: perché?
Ho iniziato a pensarti quando, in una spesa serale frettolosa come non si dovrebbero fare ma si fanno, cercando l’aglio secco tra i banchi dell’ortofrutta mi sono trovato a dover scegliere tra aglio bianco argentino e aglio rosso egiziano: a Milano, in un supermercato non discount, peraltro con una linea white label di prodotti molto attenta alla tipicità italiana e con un prodotto destagionalizzato.
Dopo aver riposto i prodotti, è scattato un “perché?” grande come una casa, che è diventato un palazzo quando, pochi giorni dopo, ho ricevuto la newsletter di un distributore di prodotti gastronomici top che proponeva nientepopodimeno che il salmone della Tasmania e l’aragosta australiana, quest’ultima incomprensibilmente proposta come “sostenibile”, pur non essendo venuta da lì all’Italia a nuoto.
Faticoso dribbling tra prodotti "dell'altro mondo"
Non ci siamo, già da tempo peraltro, ma l’ultima stagione ci dice che è davvero ora di fare le persone serie. Io sono tutt’altro che un ambientalista radicale, innanzitutto perché amo la carne e mangio di tutto, ma l’aglio africano e sudamericano, così come il pesce australiano, non hanno senso: è evidente che non hanno senso, economico, culturale, gustativo, estetico. E soprattutto ambientale.
Se, spesso mio malgrado, devo fare la spesa al supermercato non posso dovermi guardare dalla provenienza delle derrate per dribblare prodotti di uso comune, di cui certamente esiste l’equivalente italiano (e ancora più certamente almeno europeo, anche se sull’ortofrutta spagnola ho parecchi dubbi), che vengono da troppo lontano. È un problema di chilometri, di lavoro e di sicurezza alimentare, oltre che di logica.
La tristezza esotica nel fine dining
Ugualmente, nel 2024, questa corsa nel fine dining all’esotico fine a sé stesso fa sinceramente molta tristezza.
La distribuzione organizzata ha, in una società in cui le persone hanno sempre meno tempo e cultura alimentare (e molte anche meno soldi), assunto uno spazio eccessivo nel determinare i consumi domestici e anche l’offerta di alta gamma. A grandi poteri devono però corrispondere grandi responsabilità.
Io continuerò a lasciare sul bancone l’aglio egiziano e a tifare per l’aragosta, se voi nemmeno le proponete però è ancora meglio.