Ormai da qualche anno, nello specifico da quando ci si è lasciati la pandemia alle spalle, l’avvicinarsi della bella stagione coincide con il riaccendersi del dibattito sulla carenza di personale nell’universo Horeca (Hotellerie-Restaurant-Café) e in quello agricolo. Le giornate si allungano, così come la lista degli appelli di esercenti e datori di lavoro alla ricerca di manodopera per i mesi a venire. In tal senso, una mano tesa potrebbe essere rappresentata dal decreto Flussi, emanato ogni anno dal governo, il quale prevede l’istituzione di determinate quote di cittadini stranieri provenienti da Paesi al di fuori dell’Unione europea che possono fare ingresso in Italia per svolgere fondamentalmente tre tipi di impieghi: lavoro subordinato non stagionale, lavoro autonomo e, appunto, lavoro stagionale.
Dl flussi, dai ristoranti alle gelaterie
Per contrastare le già citate penurie, nell’ambito dei flussi relativi al triennio 2023-2025, a metà dello scorso marzo il ministero del Turismo ha ampliato agli imprenditori operanti nel comparto della ristorazione la possibilità di fare richiesta per lavoratori extraeuropei. Un atto che, come spiegava una nota del dicastero, era stato ritenuto «dovuto e strategico in primo luogo per far fronte all’importante fabbisogno di risorse umane di cui il settore necessiterà nel corso delle prossime festività, ponti e in vista della stagione estiva».
Dalle gelaterie e pasticcerie ai catering per eventi e alle discoteche, l’elenco delle nuove attività ammesse al decreto Flussi risultava meno lungo soltanto della lista delle domande ricevute: 690mila in tutto, registrate nei tre click day del 18, 21 e 25 marzo, secondo quanto riportato dal sito del ministero dell’Interno, a fronte di 151mila ingressi previsti. Più precisamente, per i lavoratori stagionali le richieste sono state 330mila per un totale di 89mila posizioni aperte. Va ricordato come ad ogni domanda corrisponda un datore di lavoro che intende assumere un lavoratore extra Ue; procedure che hanno portato a frodi ed aggiramenti vari del decreto.
Le difficoltà di ristoratori ed imprenditori agricoli
La questione alla radice di quel “fabbisogno di risorse umane” citato dal ministero del Turismo risiede, secondo Matteo Musacci, vicepresidente della Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) del sistema Confcommercio, non tanto in correlazione con misure quali il reddito di cittadinanza o nei presunti canoni stringenti imposti dagli imprenditori, accusati di “sfruttare” il personale, quanto in un generale “disinnamoramento” di professioni come, ad esempio, cuochi o camerieri. L’accenno iniziale al fatto che il declino sia stato innescato dal Covid non è casuale. «Le persone ne sono uscite con un ideale di vita diverso, dove al guadagno economico è preferito uno stile di vita che lasci la possibilità di stare in famiglia o con i propri cari», spiega Musacci al Gambero Rosso, individuando una carenza nei cosiddetti “livelli base”, ovvero quelle posizioni per le quali sono previsti corsi di formazione invece che veri e propri percorsi di studio: si sceglie un determinato lavoro «non perché piace, ma perché le persone devono vivere».
Passando al contesto agricolo, le analogie riscontrabili sono molteplici e riassumibili nel concetto espresso da Cristiano Fini presidente Cia-Agricoltori Italiani: «Dati e cifre alla mano, la specificità del mondo agricolo sul fronte lavoro è tutta qui, tra stabilità e saltuarietà degli addetti». Anche per Fini la pandemia ha rappresentato un vero e proprio “spartiacque” per l’intero settore: «Nel 2022, i lavoratori agricoli impiegati nel settore sono stati, in Italia, circa un milione, mentre le aziende del comparto che assumevano dipendenti più di 174mila, andando a incidere per il 25% sul totale delle aziende attive iscritte alle Camere di commercio. Praticamente circa tre quarti delle imprese agricole non assumevano dipendenti». A sostenere le tesi relative alla precarietà degli impieghi sono i dati relativi ai contratti, che solo per il 10% risultavano a tempo indeterminato.
Le falle del decreto Flussi
Per gli imprenditori della ristorazione, l’apertura last-minute alle domande per il decreto Flussi rappresenta una «grossa novità», secondo Musacci. Il provvedimento «funziona, ma fino ad un certo punto». Può essere infatti considerato una sorta di tampone «che può soddisfare aziende che inseriscono personale stagionale, che viene e poi se ne va» ma si rivela meno efficace per assunzioni a lungo termine. Il vicepresidente di Fipe sottolinea la necessità di «leggi illuminate», che aprano a politiche di immigrazione votate al lavoro. L’integrazione di personale straniero nell’ambito della ristorazione è già realtà in altri Paesi quali, ad esempio, Germania, Francia o Regno Unito, dove il melting-pot viene definito “naturale”. L’apertura, fortemente voluta da Fipe, cerca di colmare quel vuoto normativo per il quale non si possono «immettere lavoratori senza permesso di soggiorno», ma pone un altro problema: «Perché dovrebbero venire a lavorare in Italia?». L’attrattiva verso il nostro Paese viene definita scarsa, e riscontrabile nella realtà più concreta ed immediata: «Tanti italiani vanno a lavorare in Regno Unito, ma quanti inglesi vengono a lavorare in Italia?».
Anche il comparto agricolo considera “cruciale” l’introduzione di «politiche per una maggiore semplificazione e flessibilità del lavoro stagionale», affermando, secondo Fini, «gli interessi dei lavoratori» senza «oneri eccessivi per le imprese». Il decreto Flussi ha innescato sviluppi positivi, tra i quali «un’apertura a nuove modalità di programmazione sul lungo periodo, introducendo anche norme che rafforzano gli strumenti di contrasto ai flussi migratori illegali». Viene anche citato un protocollo nazionale redatto dalle organizzazioni del settore più rappresentative che permette «una maggiore possibilità di accedere alle quote stagionali» di lavoratori extra europei, tenendo conto del fatto che «esiste un canale preferenziale che soddisfa se non in tutto ma in larga parte le richieste delle aziende agricole».
Tuttavia, il settore è concorde nel chiedere azioni più decise, anche per snellire l’intero processo di assunzione. La formula del click day, ovvero quella finestra temporale nella quale è stato possibile presentare le domande per il decreto Flussi, viene vista come «un ostacolo per la programmazione del lavoro da parte delle aziende», che registrano «tempi lunghissimi per il rilascio del permesso di soggiorno ai lavoratori, che in alcuni casi superano anche il periodo massimo consentito dalle norme vigenti per lavorare in Italia, ovvero nove mesi dopo l’ingresso». Chiusura di locali ed incertezza nelle assunzioni, un contesto «allarmante».
Dalle spiagge ai ristoranti di livello
Ci si ritrova in una situazione che Musacci definisce mai riscontrata fino ad ora, per la quale «è il candidato che sceglie il datore di lavoro» e non il contrario, fermo restando che, come è giusto ed ovvio che sia, «si è sempre liberi di scegliere un impiego migliore». Ciò però viene estremizzato dal fatto che chi vuole assumere si trovi così a corto di opzioni da andare oltre «i vincoli contrattuali» generalmente imposti. Il contesto «allarmante» odierno vede stabilimenti balneari che durante le ultime festività «hanno dimezzato i posti», e «ristoranti di livello» che «si sono visti obbligati ad abbassare i loro standard per potere garantire il servizio precedentemente offerto”. Un’altra questione degna di nota poi, è quella relativa agli alberghi, all’interno dei quali la possibilità di offrire un servizio di ristorazione è, in sempre più casi, «non più sostenibile”.
Per gli agricoltori, invece, non è tanto il numero delle quote messo a disposizione (41mila ad anno per il triennio 2023-25), quanto «l’incertezza nella definizione della pratica», che poi, spiega Fini, «è l’elemento che più frena le aziende agricole a fare ricorso al decreto Flussi». La soluzione proposta è quella di calendarizzarlo tenendo conto delle esigenze delle aziende, le quali registrano picchi di lavoro in determinati periodi dell’anno. «Far entrare dei lavoratori extracomunitari nella prima parte dell’anno per essere poi utilizzati solo in estate», conclude il presidente di Cia-Agricoltori italiani, «non permette una corretta organizzazione del lavoro».