Le dark kitchen, ovvero cucine professionali che preparano pietanze esclusivamente per la consegna a domicilio, senza avere uno spazio per il servizio ai tavoli, rappresentano ormai da qualche anno una delle novità più significative nel panorama della ristorazione. Il fenomeno, nato negli Stati Uniti, dove la frenesia della vita quotidiana e uno stile di vita improntato alla velocità, hanno reso il delivery un'abitudine consolidata, sta trovando in questi anni in Italia una sua peculiare declinazione.
Il lato oscuro del cibo a domicilio
Talvolta criticate, soprattutto per via delle polemiche nate riguardo alla qualità e alla sicurezza dei cibi, a una minore trasparenza sul processo di preparazione e allo sfruttamento dei rider, appoggiandosi soltanto alla piattaforme di delivery, nel nostro paese non sono tante e, al netto di quelle non lavorano bene, ci sono esempi di grande professionalità. Proprio come quello di Alida Gotta, partecipante di Masterchef e fondatrice insieme al suo socio Maurizio Rosazza Prin, di Delivery Valley, startup modellata sul concetto di dark kitchen che oggi macina centinaia di consegne e sviluppa ricette di successo.
Esempi di buone dark kitchen
«In Italia non siamo in tanti, anche se il Paese si sta aprendo sempre di più - spiega Alida - Ma non è facile far capire bene di cosa si tratta. Del resto le dark kitchen nascono in continenti con un'alta densità di popolazione abituata a consumare cibo a ogni ora del giorno, anche in macchina, grazie al servizio drive-through. Qui da noi, c’è tutta un’altra tradizione: intanto, si è molto attaccati all’idea del ristorante, anche come momento di condivisione. E poi il food delivery ha preso piede molto più tardi rispetto ad altri Paesi».
Ma come si è adattato, quindi, questo modello alla realtà italiana? «Con l'arrivo del Covid-19, molti ristoratori hanno visto nelle dark kitchen un'opportunità. Alcuni per "fare soldi facili", offrendo i propri piatti in comodi pacchetti, senza i costi altissimi dei ristoranti. Altri, invece, avevano intuito il potenziale di questo modello, desiderosi di sperimentare nuove forme di ristorazione».
Come Alida e Maurizio, due food nerd, come si autodefiniscono, che hanno scelto di aprire la loro dark kitchen per portare «qualcosa di buono a casa delle persone», riducendo i costi del personale e puntando sul mondo online. Insomma, la pandemia ha rappresentato uno spartiacque per il settore».
Tanti ristoranti in un uno
Ma cosa spinge un ristoratore a scegliere il modello dark kitchen? «Innanzitutto per abbattere i costi dei camerieri e del servizio, e lavorare su un mondo che va online - spiega ancora l'imprenditrice - Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Il problema è che tanti non hanno fatto i calcoli con le piattaforme di delivery. Sei comunque in mano a chi ti consegna il cibo ed essi impongono commissioni elevate sui ristoranti, erodendo i guadagni».
Per Alida, però, la vera innovazione sta nel concetto di "cluster dark kitchen": la possibilità di gestire diversi brand gastronomici da un'unica cucina. «La cosa incredibile, pur nella sua complessità, è che puoi avere diverse brand all'interno di un'unica cucina, che per noi significano stili di ristorante, e ognuno ha la propria identità, la sua linea e la sia comunicazione».
Nel caso di Delivery Valley, vengono gestite ben otto brand diverse: Gigirarrosto, un pollo campese speziato e arrostito, lievito mother f**, la pizza al padellino, Catsu-Sandro, una versione personalizzata del Katsu Sando giapponese, likeapita, una pita in versione gourmet, gigaburger, hamburger giganti di carne danese dry aged e, infine, gigairbs, costolette cotte a bassa temperatura e laccate. E, questo sistema ha permesso di sviluppare diverse linee di prodotti gourmet, dalla panificazione alle salse, fino al ketchup fatto in casa.
«Gestire otto brand in un'unica cucina richiede un'organizzazione complessa, soprattutto se si considera che ogni brand ha un proprio menù, una propria comunicazione e una propria pagina Instagram» sottolineando l'enorme mole di lavoro che si cela dietro la gestione di una dark kitchen di successo.
Una domanda, però, sorge spontanea: come si fa a capire se una dark kitchen offre cibo di qualità? «L’unico modo è assaggiare» secondo Alida, nel cui caso, la qualità è garantita dall'esperienza maturata a Masterchef e dall'ossessione per la qualità italiana. Il suo pollo arrosto, ad esempio, è il secondo più venduto a Milano. E le sue ribs barbecue, sono super apprezzate per il loro sapore unico e la cura nella preparazione.
La cura dei dettagli che spesso manca
La chiave del successo, secondo l’imprenditrice chef, sta nel curare ogni dettaglio, dalla scelta degli ingredienti alla preparazione dei piatti, evitando prodotti precotti o di scarsa qualità: «Il nostro modello è prendere l'ossessione per la qualità italiana e applicarla a un modello di ristorazione. Per esempio, noi abbiamo investito molto per creare un cibo che conservi tutto il suo sapore e sia perfetto anche dopo 20 minuti l’uscita dalla cucina, all’incirca il tempo per arrivare nelle case. Un aspetto, questo, spesso trascurato da chi si approccia al mondo delle dark kitchen, ma di fondamentale importanza. Molti non lo fanno, e magari usano lo stesso riso e pesce per fare riso per creare sushi, sushi burrito, chirashi e poke».
Le parole di Alida Gotta, ci hanno permesso di addentrarci nel cuore pulsante delle dark kitchen, scoprendone le sfide, le complessità e le potenzialità. E comprendendo che si tratta di un modello di business in evoluzione, che in Italia sta ancora cercando la sua strada, ma che, se fatto con la passione e la professionalità di imprenditori seri, ha tutte le prerogative per conquistare un posto di rilievo nel panorama della ristorazione anche italiana.