Il destino della ristorazione americana
“Se questa crisi sanitaria e il conseguente shock economico ci hanno insegnato qualcosa, è che siamo tutti coinvolti in questa disavventura”. È un concetto semplice e diretto quello espresso da Danny Meyer nell’ambito di una riflessione ben più approfondita sulle sorti e le urgenze dell’industria della ristorazione americana. Ma è la chiave di tutto, perché la pandemia in atto è stata capace di paralizzare nel giro di poche settimane un settore che negli Stati Uniti conta 660mila imprese di ristorazione e impiega 16 milioni di persone, senza distinzioni di sorta. E da questa consapevolezza dovrebbe ripartire chi è al lavoro per promuovere misure di supporto economico che garantiscano la sopravvivenza per tutti, e non solo – come paventato qualche settimana fa da David Chang –per le grandi catene di ristorazione. “È fondamentale che il Congresso garantisca a tutti i ristoranti, a prescindere dalle dimensioni dell’impresa, di provare a tornare in piedi e richiamare i propri dipendenti al lavoro”, argomenta ancora uno dei più capaci imprenditori del settore, a capo dell’Union Square Hospitality Group e fondatore della celebre catena di fast food Shake Shack, che conta nel Paese 189 punti vendita.
Danny Meyer restituisce gli aiuti per Shake Shack
Proprio con Shake Shack, Meyer è finito al centro del dibattito che in questi giorni anima la riflessione sull’inadeguatezza degli aiuti economici promessi dalla Casa Bianca per sostenere le piccole imprese: i 349 miliardi destinati alle piccole aziende (che potrebbero presto salire a 450) sono andati esauriti senza che molti dei reali beneficiari (cioè le realtà che non superano la soglia dei 500 dipendenti, come specifica il Cares Act) potessero farne richiesta. Questo perché – e gli altarini sono stati presto svelati – ai suddetti fondi hanno potuto facilmente accedere grandi catene di ristorazione e gruppi alberghieri, presentando tante domande diverse quanti sono i locali o gli alberghi affiliati delle società. Aggirando così il vincolo dei 500 dipendenti. Anche Shake Shack, dunque, ha ottenuto le sovvenzioni per una cifra complessiva pari a 10 milioni di dollari, scegliendo però di restituirli per intero una volta scoperta la falla, “perché possa usufruirne chi ne ha più bisogno ora”, spiega Meyer, pur consapevole di ammontare perdite per il valore di 1,5 milioni di dollari a settimana, da quando la catena è stata costretta a fermarsi.
Le contraddizioni del Cares Act
Ma è una goccia nel mare: “Presto o tardi tutte le piccole gemme che rendono così speciale la vita di quartiere spariranno” profetizza da San Francisco Mourad Lahlou, ristoratore molto stimato in città “I piccoli ristoranti non hanno voce o rappresentanza alla Casa Bianca, resisteranno solo le solite catene… Suona come fosse Trumpville”. Una presa di posizione che stigmatizza le preferenze alimentari più volte espresse da Trump, che al di là della sua passione per il junk food ora è chiamato a tutelare gli interessi della grande industria alimentare (e non solo) per non perdere consensi. Così va letta la selezione di personalità del settore chiamate a rappresentare il mondo dell’agroalimentare e della ristorazione nella task force individuata per favorire la ripresa economica. E pure l’ultimo scioccante provvedimento annunciato dal Presidente, che si dichiara pronto a bloccare l’immigrazione regolare (niente più green card, né visti di lavoro per mansioni specializzate) pur di salvaguardare i lavoratori americani. Una sospensione che seppur temporanea contribuirebbe in realtà a complicare le cose per tutte quelle attività che fanno riferimento sugli stranieri che per anni hanno ricevuto visti per svolgere mestieri qualificati e specializzati. E nella ristorazione americana non è così raro trovarne, anzi.
I piccoli ristoranti rischiano di sparire
Tornando alle contraddizioni del Cares Act, titola il Los Angeles Times: “Il PPP (Paycheck Protection Program, ndr) porterà alla morte i nostri piccoli ristoranti”. Mentre 3 milioni di persone impiegate nella ristorazione hanno già perso il lavoro nel mese di marzo (gli ammortizzatori sociali negli Stati Uniti sono davvero poca cosa), il programma di sostegno per le piccole attività si rivela inaccessibile, spiega il quotidiano: le attività che impiegano meno di 500 dipendenti possono accedere ai fondi per una cifra pari al 250% del loro fatturato mensile; e il finanziamento è a fondo perduto se almeno il 75% del totale sarà speso per pagare i propri dipendenti (ma entro 8 settimane dalla concessione del prestito, anche se l’attività non avrà ancora avuto modo di riaprire: altro aspetto controverso). Ma in pochi giorni il fondo è andato esaurito, e neanche il 6% di chi ne aveva fatto richiesta (su 15mila piccole realtà della ristorazione tracciate) ha ricevuto esito positivo. Il conto di chi è rimasto senza aiuti, tra i più piccoli, è spietato: oltre 30 milioni di imprese (di tutti i settori produttivi). Mentre è ormai accertato che grandi catene di fast food hanno rimpinguato le proprie casse. “È sconveniente metterci gli uni contro gli altri” chiosa Meyer “questa industria risorge o cade unita. Con finanziamenti adeguati e i necessari correttivi, il programma di sostegno potrà accendere la scintilla di cui l’intero settore ha bisogno per tornare in attività”.
a cura di Livia Montagnoli