Mucche frisone e stufati insipidi? Mica tanto, perché se vogliamo dirla tutta il Nord Europa ha sfilato la bandiera della cucina mediterranea proprio a chi l’ha creata, ovvero noi italiani. Nella sostanza e nello spirito, che è quello di piatti essenzialmente vegetariani, o addirittura vegani: verdure, olio Evo, noci, semi, erbe e spezie, quanto basta. Mentre da noi c’è ancora chi si scandalizza quando vede un menù vegetariano da uno stellato. I Paesi Bassi sono oggi il maggiore esportatore di ortaggi freschi al mondo, con aziende come Greenyard che commercia unicamente in vegetali e prevede di fatturare nell’anno in corso 4,9 miliardi di euro. Vendendo insalate e peperoni.
Cucina vegetale
A riportarci sul pezzo sono arrivati i We’re Smart, nati nel lontano 2008 dall’idea di uno chef belga che amava i vegetali più di ogni altra materia prima: Frank Fol. È lui l’ideatore di un premio e una classifica unica nel suo genere: i We’re Smart Awards ogni anno classificano con un sistema da uno a cinque rapanelli il coté vegetale dei ristoranti: che oggi, dopo i primi dieci anni in cui si classificava solo il Benelux, sono 1200 in 50 Paesi del mondo.
L’altra sera al Teatro Vaudeville di Bruxelles c’è stata la cerimonia con la proclamazione dei primi cento: alcuni sono vegetariani, come Emile van der Staak del De Nieuwe Winkel di Nijmegen, paladino della cosiddetta “gastronomia botanica”, che ha vinto per il secondo anno e nel palmarès ha anche due stelle Michelin e una Michelin verde.
Astenersi greenwasher
Fulminato sulla via di Bangkok, Fol dopo un viaggio in Thailandia decise di mettere al centro dei menù del suo ristorante – era il 1989 – i vegetali, sì, proprio quei contorni tristi cui a quei tempi nei casi più avanzati si dedicava un “carrello degli acquosi bolliti”.
Quelle verdure croccanti e dai colori brillanti che sprizzavano salute sotto il sole dei Tropici lo ispirarono a fare questa vera e propria rivoluzione copernicana culinaria. Quest’anno le regole per accedere alla guida sono state rese più restrittive, ci dice. Non aggiunge, ma è chiaro, che l’idea di base, pur puntando all’inclusione (i ristoranti vegetariani sono una minoranza) tende ad escludere chi il vegetale lo presenta per moda: oggi sì, domani se non funziona magari lo sostituisco con una bella selvaggina.
E gli italiani? Mica tanto bene...
Sul podio son saliti anche lo spagnolo El Invernadero e Piazza Duomo di Alba (Cn) di Enrico Crippa, pioniere con il suo orto da un ettaro dove si reca tutte le mattine. Il ristorante Butterfly di Lucca di Fabrizio Girasoli ha ricevuto l’Italy’s We’re Smart Discovery Award. Cinque i nuovi “cinque rapanelli” italiani: oltre al Butterfly, ci sono Cuculla (Firenze), Impronta d’Acqua (Cavi di Lavagna), La Rei Natura (Serralunga d’Alba), Gramen (Gargano). Tutti vantano un menù vegetariano, mosche bianche nella terra della fiorentina o del brasato al Barolo.
In tutto sono 12 i ristoranti italiani presenti nella Top 100. A parte Piazza Duomo, stabile in terza posizione, e il Joia di Pietro Leeman, “retrocesso” al 21° posto, c’e Arnolfo di Colle di Val D'Elsa al 29°: tutti gli altri viaggiano nella seconda parte della classifica (oltre il 50°).
La sensazione - condivisa con vari intervistati - è che se la cucina italiana spopola nel mondo l’haute cuisine nostrana vista da fuori dei confini nazionali non stia vivendo un momento brillante. Forse si è persa un po’ di vista la voglia di percorrere strade davvero nuove, guardare cosa succede fuori. Ricordandosi che il pianeta là fuori sta cambiando, e le materie prime a disposizione pure. La tradizione, a volte, può essere una camicia di forza. E il cliente (e sì, anche il giornalista e il critico) anziché seguiti nel loro desiderio di comfort e sicurezze andrebbero stimolati a provare percorsi inesplorati. Prendendosi anche qualche rischio. Quanti dei nostri chef sono in grado di fare ciò?