Se ne parla sempre di più, c’è chi cerca di promuoverla e chi ne ha decretato già la fine, ci sono le mappe delle città e le classifiche dei luoghi più vegan-friendly. Eppure, nella cucina vegana c’è ancora una colossale lacuna: la critica gastronomica. Content creator e influencer danno consigli sui social, app dedicate segnalano le insegne più indicate, su TikTok si trovano video che mostrano grandi piatti di carbonara senza uova, ma di una vera critica neanche l’ombra.
Le classifiche devono essere classifiche
Non mi riferisco solo a delle ipotetiche «stroncature», argomento dibattuto nel settore della critica tradizionale, figuriamoci in un mondo che è ancora in fase di crescita! Semplicemente, non esiste un concetto di selezione, di scelta; fateci caso: qualsiasi articolo racconti «i migliori» ristoranti, bar, pasticcerie vegan di una località è, semplicemente, un elenco di tutti i posti che fanno cucina vegetale. E quando qualcuno prova a fare una scrematura, arrivano puntuali i commenti indignati a ricordare gli indirizzi lasciati fuori.
La differenza tra chi recensisce e chi "segnala"
Questo avviene per due motivi: il primo è che i locali con una proposta esclusivamente vegana sono ancora una nicchia e per questo si tende a segnalare qualsiasi insegna. Si tratta di avvisi, comunicazioni, più che di veri consigli o recensioni. Il secondo è di natura diversa: non esistono critici gastronomici che mangino vegetale, e quei pochi che ci sono parlano anche di ristoranti vegani, non solo.
C’è chi è più o meno favore (purché siano gli altri a provarci), ci sono i tradizionalisti che non rinuncerebbero mai a certi sapori, c’è chi non mangia carne ma non disdice uno spaghetto alle vongole (i pescetariani sotto copertura nel nostro settore sono tantissimi; a noi italiani puoi toglierci tutto, ma non il pranzo al mare); c’è chi riduce, chi prova, ma quasi nessuno ha compiuto una vera scelta di vita in questo senso.
Mangiare vegetale lavorando nella stampa gastronomica
La ragione non è difficile da intuire: lavorare in un settore come quello enogastronomico e abbandonare i prodotti animali significa mollare almeno la metà delle esperienze, viaggi stampa, cene, degustazioni, nuovi piatti del momento. Vuol dire ricavarsi un proprio spazio, con non poca fatica, trovarsi in una sorta di limbo e accogliere, talvolta, critiche da entrambi le parti.
Non fai parte della nicchia vegana, che perlopiù frequenta solo locali di cucina esclusivamente vegetale (perdendosi, spesso, delle vere chicche, solo perché non etichettate come «vegan»: possibile che tante persone vegane a Roma, per esempio, non abbiano assaggiato la pizza plant-based di Clementina a Fiumicino, o le tante gustosissime proposte del wine bar Bar Bozza?).
E non sei neanche più parte della cerchia gastronomica, o perlomeno, non puoi partecipare a metà delle conversazioni (e in fondo, ti senti distante dalla maggior parte degli argomenti). Nei casi peggiori, devi anche sorbirti i commenti o le opere di convincimento da parte del collega di turno sul perché la carne dell'allevamento biodinamico di nicchia che lui acquista con tanto amore (e tanti soldi) sia più etica del tuo burger di ceci.
Per quanto in fermento, il mondo della ristorazione vegetale è ancora agli inizi. Ci sarà tempo per la costruzione di una critica, che è più necessaria che mai: del resto, la stessa gastronomia convenzionale si è evoluta anche grazie la critica di settore.