Le eterne lagne sui piatti che faceva la nonna e la noia della cucina rivisitata. Il racconto di uno chef

23 Lug 2024, 16:49 | a cura di
Uscito a maggio 2024 per 66thand2nd, "Cucina aperta" è il nuovo libro di Tommaso Melilli, chef di Trattoria della Gloria a Milano e scrittore, di cui pubblichiamo un estratto

Andiamo ormai al ristorante come un tempo si andava a teatro. Con la stessa trepidazione e fame di scoperta. In alcuni casi, con più trepidazione ancora, perché a teatro ci andavano in pochi, mentre al ristorante ci andiamo quasi tutti. Siamo spesso più eccitati in attesa di una cena in un posto speciale rispetto al fruire una qualsiasi forma d’arte. Per un po’ ci siamo entusiasmati davvero tanto per le serie tv, ora nemmeno quelle bastano più. Poche cose ci danno quella sensazione di essere così tremendamente contemporanei come una cena nel posto giusto di cui abbiamo tanto sentito parlare. I registi, gli scrittori e gli artisti hanno sempre saputo che quell’attesa, quelle aspettative che abbiamo a lungo avuto per ciò che producono implicano delle responsabilità. Chi scrive e chi crea diventa sempre più irrilevante (non per colpa dei ristoranti, ovviamente): ma quella responsabilità si pone sempre, e ciascuno la interpreta come vuole e come può.

Essere cuochi, o a maggior ragione chef, significa decidere e scegliere ciò che una manciata di persone mangeranno ogni giorno. Non è molto, ma è qualcosa. Non tutti i cuochi hanno il diritto e l’indipendenza di scegliere completamente ciò che fanno, perché spesso ci sono di mezzo i padroni, gli uffici di comunicazione che inventano piatti e concept. Per qualche ragione ho quasi sempre avuto la fortuna di poter fare quello che mi pare, a volte perché i miei padroni erano abbastanza intelligenti e sceglievano quindi di concedere ampie libertà, altre volte perché i padroni erano troppo stupidi per riuscire a controllarmi.

Il bello e il brutto di essere più o meno liberi dalle imposizioni di chi ti paga lo stipendio è che, in realtà, non si è liberi affatto, o almeno io la vedo così: se nessuna persona accanto a me mi costringe a fare qualcosa che non ritengo giusto posso e devo concentrarmi su cosa è giusto in generale.

Sento il dovere

Per esempio: sento il dovere di servire cose buone, nutrienti, sane e saporite. Sento la responsabilità di cucinare cose belle e colorate; ma so anche che non deve essere tutto sempre bello e colorato, soprattutto se smette di essere buono o salutare o sensato. Sento la responsabilità di servire molti vegetali interessanti, diversi, sconosciuti o dimenticati. I suddetti vegetali devono seguire il ciclo delle stagioni e crescere nel limite del possibile nella terra, e idealmente non troppo lontano dal posto dove li cucinerò, perché se vengono da molto lontano significa che è stato necessario inquinare per spostarli e refrigerarli.

Sento la responsabilità di cucinare poca carne, e se ne cucino deve essere allevata in condizioni degne, sia per l’animale che per gli esseri umani che ci hanno avuto a che fare e per quelli che la consumeranno. Sento la responsabilità di lavorare tutto l’animale, perché è il modo migliore di rispettare un essere vivente che è morto per noi. Quindi non solo il filetto e le cosce, ma anche la trippa, il cervello, la lingua e la coda. Sono parti più difficili da lavorare, quindi bisogna saper fare anche quello come si deve.

Il pesce e le altre cose che vivono nell’acqua devono essere pescate per davvero, nel mare o nei laghi, e non allevati in gabbie. Sento la responsabilità di usare meno plastica possibile, di riciclare tutto il possibile. Sento la responsabilità di evitare gli sprechi: recuperare, reinventare, calcolare, bruciare le bucce delle patate per fare un fondo vegetale, grigliare la testa di un tonno per recuperare poi tutti i piccoli pezzi di carne e farne un’insalata, o tenere da parte i minuscoli fegati e cuori dei piccioni che servo durante una settimana per servire poi, alla persona giusta o a chi lavora con me alla fine della settimana, un solo piatto di pasta con quelle rigaglie, che è un piatto che non può praticamente esistere più di una volta ogni tanto ma resta una delle cose più buone che abbia mai mangiato in tutta la vita.

Soltanto nell’ultima settimana lavorativa ho ovviamente trasgredito a tre quarti delle regole e delle alte responsabilità che ho appena elencato. Non ne sono fiero, anzi, ma la vita è ’sta roba qua, e cerco di convincermi che il punto non è davvero non sbagliare mai, ma sapere cosa è sbagliato. Detto questo, le alte responsabilità di cui sopra sono piuttosto note, condivise e spesso ripetute da tutti nel mondo della cucina contemporanea. Sono, importanti, ma non ho dubbi che leggendole abbiate pensato: si, bene, la solita zuppa. Lo penso anch’io.

La responsabilità di dare da mangiare agli altri

Penso invece che ci sia un altro livello di responsabilità nel dar da mangiare agli altri, e sta nel capire che questo mestiere non è soltanto mettere della roba nei piatti. O meglio, si tratta di capire che mettere la roba nei piatti è un modo di pensare, un modo di dire qualcosa, in alcuni casi tante cose. In molti si chiedono se la cucina sia da considerare un’arte: non sono interessato al dibattito, ma sono convinto che, come in tutte le forme d’arte, chi cucina per mestiere sia responsabile non solo delle piccole e grandi implicazioni etiche di ciò che mettiamo nelle nostre dispense, ma forse soprattutto di ciò che raccontiamo con le idee di piatti che scegliamo di scrivere sui nostri menu.

Iosif Brodskij ha detto una volta che ci sono luoghi dove la Storia è inevitabile, come un incidente automobilistico. Luoghi dove la storia è generata dalla geografia. Mi piace pensare che ci siano piatti in cui la politica è inevitabile. E sono proprio quelli i piatti che dovremmo fare, quelli i titoli che dovremmo scrivere sui nostri menu. Non lo fanno in molti, e non sono sicuro di saper spiegare come si fa a riconoscere quei piatti. Anche perché non sono gli stessi per tutti: perché dipende da dove siamo, da chi siamo, dalla città, dal quartiere, dalle persone che ci abitano intorno mentre lavoriamo e che nei nostri ristoranti non entrano mai.

Non è facile identificare e descrivere la formula per riconoscere questi piatti, ma sono abbastanza sicuro che non siano le eterne lagne sui piatti che faceva la nonna e che allo chef ricordano l’infanzia. Va benissimo, per carità, le racconto anch’io queste storie, ma non possiamo pensare che ciò che abbiamo da dire si riassuma in un cocktail di plastiche riciclate bene e ottimi ricordi di un dorato passato contadino che ci siamo inventati.

Il piatto "rivisitato"

C’è un verbo che negli ultimi decenni è diventato molto frequente nel linguaggio della cucina contemporanea, una parola e un concetto che mi ha sempre dato molto fastidio, e cioè rivisitare. Vi invito a osservare questa parola con attenzione: cosa significa «rivisitare» un piatto, che cos’è un piatto «rivisitato»? Letteralmente, si tratta di andare di nuovo in un posto dove siamo già stati, visitarlo di nuovo. E quindi, si suppone, guardarlo con altri occhi, perché l’abbiamo già visto in passato, e quindi viviamo e attraversiamo quella roba lì in un’altra maniera, più distaccata in un certo senso, chissà. Nel concetto di piatto «rivisitato» – non riesco a non scriverlo con le virgolette, senza mi sembrerebbe di aver usato una parola che nella mia religione linguistica personale è proibita – ecco, in quel concetto si nasconde in realtà la noia. Una cosa deve essere rivisitata perché non va più bene, perché tale e quale a come è sempre stata ci ha stufati, e quindi sentiamo il bisogno di reinventarla, di fare i giochini, le salsine a parte, le brodaglie da versare sopra al tavolo, il tonno al posto del vitello e il vitello al posto del tonno.

Non è tremendamente triste tutto ciò? E, soprattutto, irrilevante?

I piatti dove la politica è inevitabile sono quelli che si preparano a casa i miei lavapiatti il giorno in cui non lavorano, sono i piatti tradizionali che non possono mangiare i popoli che da qualche parte vengono massacrati e cacciati dalle loro case, i piatti che non mangereste mai neanche sotto tortura, i piatti che vi facevano paura da bambini, i piatti che non sono più di moda. Insomma, tutte quelle cose che non si possono rivisitare, perché sono pezzi di mondo dove non ci è mai venuto in mente di andare.

Noi cuochi, cuoche, chef, siamo ormai la classe dirigente delle persone che cucinano e di quelle che mangiano: abbiamo, ciascuno in modo diverso, il potere di influenzare ciò che altri mangiano o avranno voglia di mangiare. Il nostro potere e ciò che scegliamo di farne si traduce, naturalmente, nella sostenibilità di ciò che cuciniamo e soprattutto nella cura per le condizioni di lavoro di chi sta al nostro fianco tutti i giorni. Ma forse anche nei messaggi che scegliamo di trasmettere con quelle idee di mondo - fatte di ingredienti trasformati e avvicinati fra loro - che per convenzioni siamo abituati a chiamare “piatti”.

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