Le polemiche che stanno facendo il giro di televisioni e giornali, con interventi nel merito di ministri e politici in genere, ormai è di dominio pubblico e prende le mosse da un sostanzioso articolo del Financial Times con un’intervista al Prof. Alberto Grandi sulla cucina italiana, in merito alla candidatura di quest’ultima all’Unesco come Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Cerchiamo di fare ordine, anche temporale, tra avvenimenti in realtà slegati tra loro e lo facciamo grazie anche all’intervento del diretto interessato.
Chi è Alberto Grandi
Albero Grandi è Professore in Storia delle Imprese all’Università di Parma, uno storico dunque, che in quanto tale con una passione per la gastronomia ha creato con Daniele Soffiati un podcast di successo dal nome DOI – Di Origine Inventata, dove una serie di episodi sfata miti sull’origine di ricette e prodotti (per noi il miglior Podcast del 2022).
Ricostruendo la cronistoria dei fatti, il primo marcatore lo mettiamo all’uscita dell’ultimo numero del Financial Times, qualche settimana fa. Ben cinque pagine di rivista - Barak Obama ne aveva avute solo quattro – nelle quali il professore viene intervistato sull’origine della Cucina Italiana e nel merito esprime tutte le sue ricostruzioni storiche, dimostrando in quanti e quali modi le origini di quella che oggi conosciamo come tradizione italiana sia il prezioso concentrato di dominazioni, identità territoriali e migrazioni. Il secondo marcatore, nella barra temporale, va un paio di settimane dopo, quando la Cucina Italiana viene candidata al riconoscimento come Patrimonio Immateriale dell’Umanità. A valle di tutto, una catena di polemiche che coinvolge anche, se non soprattutto, la classe dirigente politica. Dichiarazioni al veleno del Ministro Salvini e della Coldiretti e, a scendere di associazioni di categoria e di addetti al settore, tra ospitate su ogni media. Da una parte i difensori della cucina italiana a prescindere e di un riconoscimento ritenuto prezioso per tutelarla, dall’altra uno storico trovatosi nel mezzo delle proprie ragioni che, per sapere quali siano con esattezza e obiettività, abbiamo intervistato.
Professor Grandi, ricostruita la storia, ci dice secondo lei cos’è successo e perché?
L'intervista al Financial Times è stata interpretata come un attacco da parte della perfida Albione ai diritti dell'Italia di vedersi riconosciuta un primato gastronomico. Ovviamente nulla di tutto questo, l'intervista era stata fatta qualche settimana prima e da storico posso dire e ripetere che la cucina italiana, come tante altre cucine, abbia sicuramente la dignità di essere riconosciuta come un patrimonio immateriale. Ogni popolo ha la sua cucina, ne va fiero e in qualche modo ne rappresenta un elemento immateriale e culturale profondo. La lingua e la cucina sono due elementi distintivi, quindi questo lo riconosco. Poi che si riconosca anche un primato italiano può avere una sua ragion d'essere, nel senso che oggi la cucina italiana ha una reputazione internazionale, una riconoscibilità che non sono certo io a doverla mettere in discussione e non ho nessuna intenzione di farlo perché io stesso lo riconosco. Quello che io vedo questa candidatura sono alcuni pericoli.
Pericoli di quale natura?
Il pericolo principale è quello che già si vede. Si vede nelle reazioni che ci sono state anche a quell’intervista, dimostrando un tentativo di cristallizzare la nostra identità gastronomica, che nel caso specifico è la cosa più sbagliata e più pericolosa che si possa fare. L'identità è qualcosa in costante divenire e pretendere di dire che oggi la carbonara si fa così e se non si fa così non è più carbonara - questo vale per la carbonara, la pizza e tutto il resto - secondo me è davvero una cosa in prospettiva anche dannosa per la stessa Italia e per la stessa cucina italiana. Io vorrei solo che si riflettesse su questo e che si scongiurare questo pericolo. Temo che le motivazioni politiche alla base di questa candidatura portino a questo.
Quindi, sappiamo che la cucina italiana è la più ricercata nel mondo, ma sappiamo anche che la tradizione in sé è un concetto fluido. Una cosa che cambia nel tempo, e noi siamo un paese relativamente giovane. Potremmo allora dire che il vero pregio della cucina italiana è l'essere oggi il prezioso risultato di una serie di commistioni che forse nessun altro paese ha saputo valorizzare?
Assolutamente sì. In questo caso lei in poche parole ha sintetizzato il mio lavoro di anni e quindi la ringrazio. Da questo punto di vista, l'errore che stiamo facendo è esattamente quello di confondere l'identità con le radici, laddove l'identità è quello che siamo oggi, ma le radici non è quello che eravamo ieri, ma un insieme di quella mescolanza derivata da origini storiche anche antichissime che vanno dai Normanni agli Spagnoli, dalle dominazioni arabe del Sud al fatto che anche in tempi più recenti milioni di italiani se ne sono andati in America scoprendo e importando prodotti nuovi. Tutta questa cosa qui sono in qualche modo le nostre radici e la nostra cucina ha questa caratteristica:a di essere strutturalmente contaminabile. Non so se si può usare questo termine.
Il vero valore aggiunto di cui potremmo essere fieri, quindi, è di aver creato nel bacino Mediterraneo una cucina che oggi chiamiamo cucina italiana, ma che affonda le radici in moltissime contaminazioni. Queste contaminazioni oggi hanno un senso. Se dovessimo dargli un futuro, come possiamo tutelarla, anche alla luce di un importante riconoscimento, come quello Unesco di patrimonio immateriale dell’umanità?
Questa è una domanda alla quale faccio fatica a rispondere perché io insegno storia, però non mi sottraggo perché è chiaro che la storia in qualche modo dovrebbe indicarci una direzione. Io vedo esattamente questo: una cucina che è in costante evoluzione. Aggiungo un'altra cosa, la nostra cucina oggi ha una identità e una riconoscibilità, un apprezzamento e un prestigio internazionale fortissimi, ma fino a sessant'anni fa gli italiani erano additati come quelli che mangiavano la pasta e il pane. Questa era la nostra cucina riconosciuta in giro per il mondo, non c'era questo grande prestigio e questa gara e non c’era nemmeno questo grande orgoglio nazionale rispetto alla cucina. Noi ce lo siamo costruito in poco tempo. Abbiamo costruito davvero un grande modello alimentare e secondo me questa è la strada da continuare a percorrere in una continua ricerca che porti anche a cambiamenti. Forse potremmo anche essere più intransigenti, ma sugli ingredienti più che sulle preparazioni.
Lasciarci quindi lo spazio e il tempo di continuare a costruire un modello di cucina migliore, proteggendo meglio le biodiversità che ci caratterizzano come territorio?
Le nostre denominazioni, le nostre Dop molto spesso sono un po' traballanti nel controllo della filiera, su questo dovremmo lavorare di più, è un altro fronte che l'Italia dovrebbe aprire, più che legarsi in questo senso a ricette e preparazioni. Io la vedo così, però mi rendo anche conto che è difficile rimanere un equilibrio tra intransigenza e innovazione, è quasi una magia e non sono certo in grado di averne l’incantesimo. Però credo che questa sia stata fino a ora la ricetta del nostro successo.
Entrando nel merito quindi della candidatura, cosa c’è che non va?
Io ho letto alcuni passaggi del dossier. Ci sono alcune cose che - non voglio essere troppo tranchant - sono paradossali e vorrei usare questo termine descrivendo un passaggio dove si dice che “cucinare in casa per una famiglia italiana significa prendersi cura della famiglia”. No, scusate, perché una famiglia olandese invece quando cucina si sputa nel piatto a vicenda? Ma le conosciamo le filosofie orientali sulla cura della cucina e degli ingredienti? Credo sia evidente che questa cosa possa valere per l'Italia quanto per il resto del mondo. Oppure quando si dice “nei ristoranti italiani c' è una cura per il cliente”, voglio credere che in tutto il mondo sia così, non è che quando vai in Cina o in Brasile ti prendono a sberle dentro al ristorante! Insomma, non capisco questa cosa e mi sembra che questi possano essere i pericoli. Vedo vantare un'eccellenza che non c'è, o che quanto meno non ci contraddistingue, mentre perdiamo seriamente di vista quella che ci rende unici al mondo.
Dovremmo riscrivere un dossier vantando le nostre contaminazioni e la nostra capacità di rendere unita e unica la nostra cucina italiana, in un modo che nessuno al mondo è riuscito a fare. Dovremmo chiedere all’UNESCO che il nostro patrimonio immateriale diventi dell’umanità, proprio per la sua capacità di essere stato unito valorizzando le ricchezze delle sue diverse radici, creando un modello identitario profondamente riconoscibile e prezioso. È così?
Se lo riscrivessimo fondando un dossier su tutto quello che ci siamo detti finora, dal Regno delle due Sicilie fino a rivendicare la grande Italia proletaria, lo meriteremmo di certo più di qualsiasi altro paese nel mondo. Cioè, il fatto che non riusciamo neanche a calcolare il numero, ma che tra i quindici e i venticinque milioni di italiani, dal 1875 fino agli anni cinquanta e sessanta se ne sono andati e in molti sono tornati portando esperienze e prodotti nuovi, questa cosa è assolutamente importante nella storia d'Italia nella storia della cucina italiana. Anche questo dovremmo rivendicare. Quando racconto il contributo degli americani alla cucina italiana vengo additato come il traditore, ma in realtà sto anche in qualche modo rendendo giustizia a questi milioni di italiani che se ne sono andati per fame, senza raccontarci la storia che sono andati in giro per il mondo a insegnare a far da mangiare. Quegli italiani se ne sono andati perché avevano fame, non perché avessero qualcosa, se avessero avuto maccheroni e pizza sarebbero rimasti qui, non andavano in America e questa è la questione fondamentale. Io vorrei che questo venisse in qualche modo rivendicato e venisse anche evidenziato perché altrimenti non si capisce su cosa è stata orgogliosamente forte l'Italia.
Dunque chiudiamo: riscriviamo questo dossier, presentiamolo in maniera corretta e diamoci un valore vero, eliminando la retorica. Andrebbe bene così?
Eliminare la retorica: credo che questa sia la perfetta sintesi di tutto il discorso che ci siamo fatti, perché ho la sensazione che ci sia molta retorica e forse anche un po' di timore. Perché a dir la verità poi uno ha paura di rivendicare la verità di un paese che fino a cinquant'anni fa’ era povero o comunque non mangiava particolarmente bene. Non c' è niente di male nel raccontare questo. Dovremmo essere orgogliosi di quello che abbiamo costruito in questi decenni.
a cura di Andrea Febo