Se per gli adulti la vita al tempo della Seconda Guerra Mondiale non era facile, ancor più dura lo era per i più piccoli, specialmente i neonati. Il latte materno era il nutrimento più sicuro, ma per la maggior parte delle donne (malnutrite) non era semplice soddisfare la fame dei figli. Cosa si dava, dunque, da mangiare ai bambini?
Latte, caffè d'orzo e brodo di legumi
Un'autrice del tempo, a firma M.G., nel '44 scrisse un articolo intitolato “Come posso alimentare il mio divezzo” (bambino svezzato, ndr), pubblicato da “Noi Donne”, in cui parla di “elastico adattamento”, una qualità senza la quale “in questa Europa massacrata non ci sarebbe più un solo bambino sano...”. La soluzione? Arrostire un po' di farina e cuocerla con acqua, per creare una sorta di pappa adatta per il pranzo e la cena. A colazione, invece, latte bollito – spesso in polvere oppure condensato – allungato con acqua o caffè d'orzo, facilmente reperibile al tempo, sostituito per eccellenza del classico caffè. Si preparava poi il pancotto, con acqua e olio oppure brodo di legumi, solitamente fagioli, detti “la carne dei poveri” e sempre presenti in dispensa.
Il compito delle mamma
Come di consueto, alla donna spettava il ruolo più difficile: “Mi accordo di prescrivere anche ciò che oggi non si può avere: penso tuttavia che, racimolando, la madre accorta riesce ad afferrare qualche cosa ogni giorno per il suo piccino”. E poi carote grattugiate, mele cotte o, “quando l'Annona (la carta annonaria, ndr) ce lo fornisce, qualche cucchiaio di marmellata”.
L'inverno del '44
Era l'anno del grande freddo, l'inverno del '44 che “avanzava con i suoi rigori, minacciava nuove calamità alla povera gente”, come scrive Luigi Longo in “Un popolo alla macchia”. E continua: “Mancava il combustibile nelle case operaie, la maggior parte sinistrate, senza vetri, senza imposte, senza luce, senza acqua”. Pochi indumenti e calzature, tanti sfollati e senzatetto, quasi tutti denutriti: questo il tragico quadro della gente dell'epoca.
Le frattaglie
In un periodo così critico, in cui soprattutto la carne era appannaggio di pochi, diventa più importante la tradizione del quinto quarto, ovvero quell'insieme di frattaglie (disponibili solo il lunedì, il martedì o il mercoledì), interiora, zampe, muso, coda, tutte le parti di scarto degli animali, che diventano protagoniste dei piatti. Un alimento piuttosto comune, proveniente anche da macellazioni di animali non più utilizzabili per il lavoro: mucche esauste, cavalli con zampe rotte, asini anziani e simili. Solo, però, previa autorizzazione del veterinario, che ne controllava lo stato di salute.
I piatti
C'era la trippa, ricavata dallo stomaco dei ruminanti, da sempre cibo povero destinato alle famiglie meno abbienti, il rognone, il rene dell'animale, solitamente infarinato e cotto in padella con un po' di vino rosso, e le animelle, timo e pancreas di vitello e agnello, generalmente abbinate alle verdure di campo cotte e, quando era stagione, ai funghi. Ma potevano essere anche condite con una salsa povera, come racconta Bruna Bertolo in “Donne e cucina al tempo di guerra”, una sorta di besciamella a base di “farina tipo 0, latte, sale e un pizzico di noce moscata, da versare sulle frattaglie già calde”.
I cuori
Se ben ripuliti, anche i fegatini di pollo arrivavano spesso sulle tavole degli italiani, magari abbinati con le patate, tubero che non mancava mai al tempo, soprattutto nelle zone di campagna. I più fortunati aggiungevano anche il concentrato di pomodoro, che veniva acquistato sfuso da un recipiente di latta sempre aperto. Per i cuori, invece, proprio come per le parti più pregiate di carne, bisognava far prevenire una richiesta al venditore di rigaglie: i cuori, infatti, erano presenti in grandi quantità solo nel momento in cui si spargeva la notizia di una possibile epidemia.
I batsoà piemontesi
Ancora il polmone, fritto o impiegato nelle minestre, i ventrigli bolliti e conditi con erbe aromatiche e olio, e gli zampini di maiale, chiamati batsoà in dialetto piemontese (letteralmente “calze di seta”), fritti o cotti in acqua e aceto. Senza dimenticare il grande misto di frattaglie e rigaglie, ovvero l'insieme di tutto ciò che era recuperabile dagli organi interni dell'animale, che veniva cotto in un unico pentolone con erbe aromatiche e di campo, cercando di equilibrare i vari sapori degli alimenti.
I vaccinari di Roma
Col tempo, poi, nacquero ricette più saporite, ma sempre basate su pochi e semplici ingredienti. Piatti poveri e di recupero che hanno dato via a tanti grandi classici della cucina laziale e non solo, grazie all'ingegno dei “vaccinari” del mattatoio di Testaccio, gli addetti allo scuoiamento dei bovini, che iniziarono a cucinare i sottoprodotti, la loro unica paga.
Qui, vi riportiamo la ricetta più contemporanea della trippa alla fiorentina, ma se volete rifarla come al tempo... eliminate qualche ingrediente di troppo (il pomodoro, per esempio!)
La ricetta: trippa alla fiorentina
a cura di Michela Becchi
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