Così la noia è diventata il vero guaio dell'alta cucina

10 Ott 2023, 11:57 | a cura di
Si pensa molto alla tecnica, ai curricula, al rituale, alla perfezione estetica. Ma forse stiamo perdendo di vista la felicità, la sola cosa per cui vale la pena andare a mangiare fuori.

Fattore noia. Diciamocelo una volta per tutte: è l’uggia l’argomento più sottovalutato nel grande luna park della ristorazione. Chiunque frequenti i locali fine dining con una certa frequenza lo sa bene. Non è un piatto sbagliato, una texture poco convincente o una sbavatura del servizio a rovinare una serata nel ristorante prenotato spesso settimane prima e per il quale si è stanziato un budget ingente, sottratto ad altri tipi di impiego. No. L’esperienza viene minata più facilmente dal sussiego, dalla piattezza, dalla perfezione sterile, dai manierismi, dalla mancanza di emozioni, dalla ripetitività di stimoli e di rituali. In una parola: dalla noia.

Fattore trascurato

Eppure nessuno ne parla. Nelle guide specializzate, redatte da presunti esperti che visitano ogni anno centinaia di insegne a caccia di bonus e malus, nei punteggi e nelle stellificazioni mai si dà spazio al divertimento che si prova e che può essere determinato dall’empatia di un cameriere, da una narrazione avvincente e non pedante, da una trovata che non sia acchiappaconsensi o puramente gestuale ma autentica, dall’umanesimo diffuso, da un sorriso, dalla sensazione di essere amati e rispettati. E anche i recensori amatoriali che regolano i propri conti con i locali visitati a colpi di stellette e giudizi trancianti, fateci caso, difficilmente racconteranno se si sono goduti l’esperienza o se avranno vissuto una serata monocorde. No: ci saranno lodi sperticate, magnifici scenari, entusiasmi mal trattenuti. Oppure de profundis (frase tipica: “Metto uno solo perché non si può mettere zero”) per un cameriere sgarbato, per un errore nella comanda, per una prenotazione saltata, per un ritardo nelle ordinazioni, per un conto troppo salato.

Rituali sempre uguali e frasi fatte

La noia in un pasto può annidarsi ovunque, anche se certamente affligge più facilmente chi è aduso all’alta cucina e individua facilmente certi stanchi cliché. È noia l’uso di ingredienti che per motivi inspiegabili sono di moda nel 2023 e non lo erano nel 2019 e non lo saranno nel 2027. Il capitone che fino a qualche tempo fa al massimo era ingrediente da Natale in casa Cupiello, i piselli che spuntano ovunque riscattati dal loro destino surgelato, la barbabietola, le zucchine trombetta. È noia il piccione che in un modo o in un altro in un menu come si deve non può mancare. È noia l’enfasi sulla maturazione dell’impasto della pizza, 36 ore, no 48, no 72.

Lo sono le frasi fatte, le sbrodolate troppo puntigliose, i menu vegetariani a tutti i costi anche se sul vegetale non si ha nulla di nuovo da dire, perché nessuno può rinunciare a dire “voglio mettere il vegetale al centro e fare della proteina una comprimaria”. Così come i “valorizzo il lavoro degli artigiani del territorio», i «dessert giocati sulla freschezza”, il vino “dolce ma non stucchevole”, le cucine della memoria che spesso sarebbe meglio dimenticare, “le radici nel territorio ma con lo sguardo al mondo”, le provocazioni annunciate e quindi depotenziate fino al re dei cliché, assurto ormai a gag da Zelig: “Tra tradizione e innovazione”. Ma sono noiosi anche certi rituali celebrati senza passione, perché così si fa, certi esotismi forzati, certi curricula tutti uguali, “dopo esperienze a Londra, Parigi, Hong Kong”, lo sguardo che fa il maître quando comunica ammiccante “il pane lo facciamo noi”. E che vuoi, l’applauso?

Obiettivo empatia

Questo non vuol dire che il modello debba necessariamente essere quello imposto dalla Spagna negli ultimi decenni. Cene spettacolo, sipari che si aprono, trovate circensi, nani e ballerine, smaterializzazioni, trasformismi, mimetizzazioni, depistaggi, ego ampi quanto la provincia di Isernia, avanguardie operaie deluxe. Sono idee che divertono e che fanno scuola, ma che restano episodi. La noia va combattuta anche nella ristorazione che non può permettersi scenografie da kolossal hollywoodiano, con più modeste risorse e con l’empatia tipica di noi italiani. Che a volte sembriamo soffrire proprio questo: l’aver accettato supinamente certi standard imposti da altri (ogni riferimento ai nostri cugini francesi è puramente voluto), certi contegni, certe cerimonie, certe litanie, certi impiattamenti. Uff, che noia.

Sola una cosa può davvero giustificare l’investimento in termini di denaro, tempo e viaggio che comporta la visita di un ristorante: devi uscirne più felice di quando sei entrato. Destinazione paradiso, o giù di lì.

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